Ho sempre considerato i Coldplay come gli unici veri successori dei Beatles. O meglio, per essere più preciso, i più talentuosi diretti discendenti della linea McCartneyana dei gloriosi Fab Four. Quindi, secondo la scienza tutt'altro che esatta della genetica artistico-musicale, questa parentela si è tradotta ed esplicitata in:
? Innato senso della melodia.
? Attitudine inguaribilmente ottimistica.
? Stile di vita sobrio e tendenzialmente pantofolaio.
"Viva la vida or Death and all his friends" non è il "Kid-A" dei Coldplay. La sperimentazione tanto preannunciata non ha trovato conferma nelle 10 canzoni (13, considerando le ghost tracks) che compongono il quarto album della band inglese; e forse anche questo è retaggio dell'illustre padre musicale Sir Paul.
Ma va bene così. Anzi, va benissimo.
I Coldplay non abbandonano il tracciato melodico che li ha da sempre caratterizzati, ma si concedono qualche scarto improvviso, quel tanto che basta a rinnovare una formula che già nel precedente "X&Y" puzzava di stantio.
Nessuna rivoluzione, dicevo, se non per quel che concerne la struttura dei brani, che spesso rifiutano la tradizionale forma-canzone e il ritornello a tutti i costi. "42" è l'esempio più riuscito di questa nuova tendenza, un brano tripartito che parte sommesso con un piano alla "Imagine" (addirittura citata direttamente in una frase pianistica), salvo poi esplodere in una seconda parte strumentale decisamente heavy (per i loro standard, ovvio) che si riversa a sua volta in un energico pop'n'roll che urla Beatles a pieni polmoni, prima di concludersi esattamente come è iniziata. Struttura simile per la conclusiva semi-titletrack "Death and all his friends", una ninna nanna al pianoforte che diventa improvvisamente funky e termina in un tripudio di chitarre effettate e cori epici.
Il principio cardine è la varietà di stili: l'album è vitale ed eterogeneo, grazie anche all'apporto del blasonato produttore Brian Eno. Martin & soci spaziano dal pop più raffinato ("Lovers in Japan", "Viva la vida") allo shoegaze ("Chinese Sleep Chant"), dal rock del primo singolo "Violet Hill", che strizza l'occhio agli Oasis, ad influenze annacquate di world music ("Strawberry Swing", beatlesiana nel testo, che ricorda "Good Day Sunshine" da Revolver) e, perché no, alle sferzate blues e ai nervosi violini mediorientali di "Yes!". Da non dimenticare "Cemeteries of London", una vera e propria ghost-story che mescola folk e ritmo simil-flamenco, e soprattutto la geniale "Lost!", esempio di come una perfetta ballata al saccarosio possa essere decostruita e riassemblata in un brano insolito che unisce percussioni quasi tribali ad organo e pianoforte.
Le liriche continuano ad essere il punto debole dei Coldplay, ma è innegabile l'enorme passo avanti rispetto ai testi triti e dolciastri del predecessore "X&Y". Anche in questo frangente, è d'obbligo rinnovare il già citato paragone con McCartney, quanto mai calzante: non è forse vero che anche Sir Paul aveva (e ha tutt'ora) un rapporto conflittuale con i testi delle proprie canzoni? Rapporto che si è aggravato durante la carriera solistica, quando venne a mancare un Lennon che gli facesse da grillo parlante. Le liriche dei Coldplay sono funzionali alla loro musica, e modificarne lo stile comporterebbe anche una inevitabie metamorfosi della parte musicale; e non ci servono altri Radiohead, grazie.
I Coldplay sono cambiati, gente, ma non tradiscono la loro natura e continuano a perpetrare la loro poetica con la solita, disarmante onestà. E un tocco di dinamismo in più che sicuramente potrà incrementare le file della già folta schiera di ammiratori.
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