Molti di noi ricordano il 1969 soprattutto perché in quell'anno cinque ragazzi guidati da Robert Fripp trasportarono la musica su di un nuovo mondo mai udito e mai visto prima, una dimensione fatta di composizioni dilatate, sontuose, minacciose, popolate da visioni simili a fumi stupefacenti guidate dall'incalzare maestoso di mellotron e chitarre solenni. Quel disco epocale simboleggia la piena fioritura e maturazione dei semi progressivi che da un paio d'anni gente come i Nice, i Moody Blues o i Procol Harum si erano dati a seminare.
Pochi, come ho potuto constatare, ricordano invece che nello stesso anno del Re Cremisi una formazione jazz-rock ha dato alle stampe un disco che a mio avviso non è celebrato come dovrebbe, forse perché i Colosseum in realtà erano una band jazz-rock, forse perché il genio di David Greenslade si è un po' perso nei meandri della storia. C'è da dire che questo irripetibile "The Valentyne Suite" è un lavoro decisamente poco compatto e unitario, e che solo l'imponente composizione finale, vero epitome del progressive fiatistico e tastieristico è degna di entrare direttamente nel mito.
Dei cinque brani che compongono il lavoro, quattro sono poco più che innocui, apprezzabili soprattutto per l'ottimo lavorio di una sezione ritmica da sogno, composta da Tony Reeves al basso e da Jon Hiseman alla batteria e per i contrappunti organistici di Dave Greenslade, mentre il resto, dalla voce molto "black" dello stesso Reeves ai fiati di Heckestall-Smith fino alla chitarra di James Litherland rimane sì ad altissimi livelli tecnici ma non riesce a stupire. Si parte con lo pesudo-prog jazzistico di The Kettle, caratterizzato da chitarre distorte che eseguono anche riff lancinanti; la batteria è secca, violenta e precisa ma il resto, compresa la voce, abbastanza anonimo. In Elegy Hiseman ci dà dentro con le spazzole e fa un figurone, Greenslade rimane in sottofondo col suo organo, buoni gli interventi si sax per un brano veloce e molto jazz; più hammond invece e ritmo blando in Butty's Blues, un pezzo notturno, da anni Trenta, molto elegante e ben suonato, ma di nuovo nulla di eccezionale. Meglio la successiva The Machine Demands A Sacrifice, più particolare, cantata con una voce roca e sgraziata ma efficace e caratterizzata da un intenso lavoro percussivo. Da notare, oltre al pittoresco titolo e al testo, gli interventi di organo e il "doppio finale" con la canzone che sfuma fino a spegnersi, salvo poi risollevarsi repentinamente per un ultimo, minaccioso afflato.
Giriamo il disco, e veniamo accolti da un riff di basso inquietante subito supportato da un organo lontano e poi da una batteria a dir poco eccellente. Si rimane abbagliati, e poi si scopre che ci troviamo di fronte a January's Search, il primo tema dell'incomparabile "Valentyne Suite". Non è jazz, non è rock, non è psichedelica, è puro progressive, è la storia che prende suono e forma. Tutto, dalle bellissime tastiere di Greenslade, al favoloso e funambolico sax di Heckestall-Smith, alla superlativa e indescrivibile batteria di Jon Hiseman è assolutamente perfetto, equilibrato, ineccepibile, emozionante. Il primo tema è una divagazione maestosa e scorrevole come un'acqua fatata, e cresce con grazia e gentilezza, trasudando però sotterranea potenza che trascina e trasporta su riff indimenticabili; un rallentamento, un cupo giro di pianoforte, il sassofono si allontana in un deserto inesistente, il ritmo si espande, poi un basso che emerge dalle ombre con un incalzare minaccioso da vita al secondo tema, Febuary's Valentyne. Mi azzardo a dire che l'assolo d'organo iniziale è uno dei più belli dell'intero rock progressivo, e si eleva a vette epiche mai toccate prima, evocando una sorta di cattedrale, una gotica creazione senza confini di spazialità che segna l'ascoltatore per sempre. Si rimane shockati allo strappo seguente, quando il sax e la batteria entrano improvvisi a doppiare il tema del basso, e Greenslade scatena la sua creatività tastieristica con un assolo indiavolato. La musica procede vigorosa con una precisione perfetta, poi frena nuovamente, e vocalizzi eterei galleggiano nella nostra mente con il sax che ricama eleganti figurazioni coinvolgendoci sempre più. Degna di lode è la capacità dei musicisti nel giostrare con semplicità disarmante i ritmi e le atmosfere, ora pacate, ora incalzanti; e infatti la fine del secondo tema è caratterizzata da violente e maestose rullate di batteria distorta e sprazzi di fiati che aprono la porta alla sezione successiva, The Grass Is Always Greener. Il proscenio è per il basso che con note singole culla un lancinante riff di sax dall'incedere minaccioso e che ancora una volta ci lascia stupefatti e ammirati. Bellissima l'entrata del mostruoso Hiseman, genio percussivo, bravissimo Reeves che tesse l'intelaiatura di quest'ennesimo trionfo cesellato con potenza da Greenslade. Qui appare anche la chitarra elettrica che dopo un breve assolo di basso entra con note tiratissime e distorte, e riecheggia distante e glaciale; ben presto ci si rende conto il ritmo sta impercettibilmente ma inesorabilmente aumentando, e via via l'organo e le batteria si fanno più pressanti e veloci La musica diviene un turbinio da capogiro che avvolge e cattura per poi placarsi in pochi attimi e lasciarci soli dinnanzi a un altro minaccioso incedere di basso che pulsa solitario; ecco ritornare il tema iniziale di sax, ed ecco portarsi a compimento dopo diciassette minuti la creazione di questo immane capolavoro della musica moderna.
Senza blasfemia alcuna, ci troviamo innanzi a un tempio consacrato all'arte e alla ricerca del sublime. Forse sembreranno esagerate parole simili, ma ben poche composizioni musicali sanno racchiudere in sé una tale quantità di stili, influenze, atmosfere, tecniche ed evocazioni. Questa suite, credo la prima fra tutte quelle composte negli anni d'oro della musica, davvero è qualcosa che lascia il segno, e che ad ogni ascolto stupisce e appassiona, ci porta a scoprire qualcosa di nuovo. E' una qualità trascendente della musica che solo pochi grandi artisti sono riusciti a raggiungere.
I dimenticati Colosseum esauriranno qui il loro compito, prosciugandosi nel giro di pochissimo tempo, ma chi ama la musica non potrà mai dimenticare ciò che essi hanno creato. Suggestioni barocche, metafisiche, plastiche e demoniache, un immortale papiro scritto senza parole, sola musica e strumenti, qualcosa che a quasi quarant'anni di distanza sembra ancora assolutamente fresca, unica e senza possibilità di replica. Leggenda nella leggenda, questo è il primo disco dell'etichetta progressivo-psichedelica (ma non solo) per eccellenza, la Vertigo. La diafana ed elegante fanciulla Valentyne ci attende sempre: doniamole senza indugio diciassette minuti delle nostre menti.
Cinque stelle, ma è davvero poco.
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