Per un certo periodo, più o meno un paio di lustri fa, i Colour Haze sono stati il mio gruppo preferito.
Le prove le trovate anche e soprattutto su queste pagine: recensioni, De Meeting, addirittura un'intervista.
L'interesse ha iniziato a spegnersi più o meno tra l'uscita di "All" (2008) ed il successivo "She Said" (2012). Soprattutto per la carenza di spunti compositivi nuovi e degni di nota, ma credo anche perché la scorpacciata psycho-stoner di quegli anni cominciava a darmi qualche problemino di digestione.
E' andata a finire che, per alcuni anni, ho perso di vista la band di Stefan Koglek e, più in generale, tutta quella micro scena che ruotava intorno all'etichetta tedesca Elektrohasch: tant'é che ai successvi due dischi ("To The Highest Gods We Know" del 2014 e "In Her Garden" del 2017) ho prestato giusto pochi ascolti e quasi sempre mentre ero impegnato in altro, che fosse scrivere poesie o fare la cacca, poco cambia.
In questi giorni sto ascoltando "We Are", ultima fatica dell'ormai quartetto tedesco, uscito negli mesi del 2019, nel clima surreale e un po' paranoico del lockdown.
Lo faccio soprattutto al mattino presto, prima che il resto della famiglia si alzi, come un piccolo rito di questa strana, nuova quotidianità, fatta di giornate tutte uguali, di telefonate a mamma e di videochat con gli amici, di ginnastica in salotto e Netflix.
Lo sto vivendo come una specie di "disco rifugio", come un momento, una sensazione, conosciuti e confortevoli, con cui rilassarmi e non pensare troppo.
L'ingresso, a questo punto direi in pianta stabile, del tastierista Jan Faszbende (già presente in "In Her Garden") ha aggiunto al crepitare elettrico, saturo e panciuto, della chitarra di Koglek, sfumature jazzy prog che, sebbene non facciano sbandare il sound generale troppo lontano dai lidi dello stoner fricchettone, lo arricchiscono di un apprezzabilissimo respiro vagamente più krautico.
A livello ritmico, poi, mi sembra che mai come in questi disco il batteraio Manfred Merwald sia entrato in studio di registrazione con il preciso intento di certificare che il suo pene non solo è di una lunghezza sconsiderata, ma ha anche una gradevolissima profumazione al miele di castagno, che, all'occorrenza, gli consentirebbe di regalare piacere alla tua donna anche solo con le vibrazioni del rullante mentre cerca le cartine nel portafoglio.
Ci sono due strumentali bellissime.
La prima è "The Real". E' un crescendo tanto furbo quanto magistrale, giocato su una manciata scarsa di riff, in cui però non riesco a fare a meno di trovare paesaggi, sguardi e colori, carichi di una specie di maestosa malinconia. La seconda è "Freude III", che ogni volta mi frega per come mescola il suono liquido delle tastiere e il bullismo watterico della coda distorta.
"We Are" mi pare un bellissimo disco.
Non so se mi avrebbe fatto innamorare dei Colour Haze come a suo tempo ha fatto quel filotto di dischi quasi perfetti pubblicati ad inizi anni 2000.
Non so nemmeno se questo mio giudizio sia influenzato dal clima di questi giorni.
Poco importa.
In fondo, è solo musica.
No?
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