Quando sento pronunciare gli aggettivi "lento" e "pesante", spesso mi chiedo se a qualcuno sia mai capitata la (dis)grazia di aver ascoltato un certo gruppo di nome Conan, trio britannico, caratterizzato da due elementi primari per autorevolezza ed originalità: 1) amplificatori alti come torri, ma delle più deformi cattedrali gotico/romaniche s'intenda; 2) accordature indefinibilmente basse, oltre la scordatura stessa, garantita dall'uso di chitarre b-tone, ma della peggior specie.
"Horseback Battle Hammer " (2010), viene prodotto dalla Aurora Borealis, ed è un EP di 4 pezzi la cui gravosa entità lascia delusi tutti i fan di Lady Gaga, ma delizia i masticatori del doom-stoner più occulto, malsano e visionario che si sia mai visto nella scena europea, se non addirittura mondiale. Che dire? C'è da spaventarsi, ma sul serio. Se gli Electric Wizard garantivano un certo range di comprensione melodica, pesantezza a parte, i Conan vanno oltre, in tutti i sensi. Bordate parificabili a terremoti, si propagano dal nulla per diffondersi omnidirezionalmente ai malcapitati ascoltatori che hanno la fortuna di esserne investiti con delicata mostruosità. Già, perchè questa band così apparentemente minimale, nasconde un'originale utilizzo della modulazione dele frequenze basse: così basse da includere il raggiungimento del celeberrimo e tanto odiato clip dei fan di Gigi D'Alessio, ma solo per poco, come d'incanto.
"Krull", brano primo, è la perfetta rappresentazione di una mastodontica traversata vichinga via oceano, direzione Islanda. Piccolo problema: il carico, non certo costituito da armi, né tanto meno oro, ma bensì da una tonnellata di erbe allucinogene vendute da qualsivoglia fenicio archeo-alchimista in voga di scherzetti ai tanto rivali e concorrenti esploratori del mare. E le acque, si fanno allora così profonde e buie da scambiare l'oceano per l'universo stesso. Tutto è onda magnetico-sonora, tutto è buio, pesto e pestifero, scosso soltanto al minuto settimo dall'impetuosa tormenta di neve in salsa stoneggiante al punto tale da ridare speranza ad una traccia che per minuti 6 non ne lascia nemmeno l'antitesi dell'ombra. "Satsumo", brano secondo, è invece un brano tale da ricordarmi gli orripilanti mostri marini che popolano la fantasia dei racconti nordici: obeso, squamato e ruvido quanto melmoso, questo colosso doommarineggiante affiora dal pelo dell'acqua per scagliare contro i naviganti tutta la sua furia incontrastata. Volano alghe, pezzi di saliva, e quant'altro la bestiaccia dilaniata dagli acuti salmodianti del vocalist riesca a scagliare dalle profondità dei flutti. "Dying Giant", brano terzo, ben si confà alla nostra storiella tutta drone-panscandinava: il gigantesco mostro si agita, ferito a morte, emette un lento, colossale urlo, e con fragore inaudito lascia crollare la propria chilometrica coda sul manto opaco degli oceani. Scomparirà in modo asfissiante, sprofondando, e ad esso subentreranno le urla solenni e liberatorie di un equipaggio che alza le spade al cielo scongiurando la morte appena evitata, ma ahimè, in modo del tutto inutile. Da lontano, la nebbia viene vinta dalla sagoma compatta e spettrale di una terra la cui costa appare imponente e grigia. Il silenzio regna a bordo, la tensione si sparge dominando l'anima: si rema con foga, bagnati dalle acque salmastri sospinte dal vento impetuoso, e rimbombi funerei di batteria mai sentiti, crudi e massicci allo stesso tempo. "Sea Lord", brano quarto ed ultimo: finalmente, l'attracco atteso. Una fendente litania distorsiva, guida il cammino verso un entroterra avvolto dall'opacità delle nubi sovrastanti. Ovunque, il verde acceso colpisce l'osservazione e contrasta con orgie di cascate ghiacciate dal clima polare. Poi, improvvisamente, l'indicibile: un tempio di granito, sfuggente alle misurazioni possibili, impatta senza prevviso nell'ambiente di un'isola di cui nulla si conosce. Sulla sua facciata, scolpite a bassorilievo, l'intera epopea di una civiltà antica, scomparsa in epoche anti-diluviane: uomini pesce intenti in atti di venerazione verso l'immagine del Signore degli abissi. Un uomo urla alla compagine, ed indica corpi umani smembrati in sacrificio, sulla fiancata dell'arcano edificio. Il panico domina la ragione, e si fugge da quel luogo infernale, dove la disgrazia e l'oscenità pagana più estrema segnano l'odore dell'aria stessa. In molti ripiegano verso la nave, in molti salpano per fuggire. La terra trema, e le rocce si sgretolano in frantumi. Le distorsioni imperano, rasentando la semi-cacofonia.
Scampati alla morte, i superstiti torneranno ai loro vilaggi, e racconteranno di averne viste di cotte e di crude. Ma ancor più, diranno alle loro mogli e ai loro figli di stare lontani da quella maledetta tragedia che è "Horseback Battle Hammer ". A voi invece, imploro di concedere una possibilità a questo originalissimo EP, prova tecnica per il successivo album dei tre mentecatti in questione, che auspico possa fuoriuscire il prima possibile!
Ho introdotto il tutto parlando di aggettivi, ed intendo concludere con l'unico aggettivo adeguato a questa band: dopante. Anzi, lovecraftiano.
Agli amanti del genere, ascolto pluriconsigliato.
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