Sembra incredibile, inverosimile, impossibile, sembra una di quelle cose a cui non vuoi credere e chiedi a qualcuno di tirarti una secchiata d’acqua o di strapparti le coperte per buttarti giù dal letto, eppure è realtà: sono tornati i Conception! Sì, esattamente loro, quella semisconosciuta formazione norvegese che negli anni ’90 si distinse per un power metal melodico dalle tinte progressive caratterizzato da un sound potente ma molto melodico, mai rozzo e persino elegante, intelligente nelle soluzioni, non proprio di facile assimilazione (sarà per questo che sono rimasti nella nicchia più nicchia?), però anche malinconico, quasi come se il metal indossasse lo smoking ma uno smoking rigorosamente nero. Quattro dischi davvero grandiosi, caratterizzati davvero da una grande ispirazione, poi lo scioglimento proprio sul più bello, dopo quel “Flow” che riduceva la potenza delle chitarre ma introduceva nuove sonorità spesso più delicate ed elettroniche dimostrando che la band aveva ancora mooolto da dire. Il rammarico per quello che potevano diventare ma anche il pieno godimento di quel poco di grande che avevano costruito, e non mancava di certo nemmeno la speranza di un improbabile ritorno. Una reunion concretizzata nel 2005 per alcuni concerti e poi rimasta lì… fino alla primavera del 2018 quando la band annuncia la tanto sperata reunion, con un EP in registrazione e l’apertura del crowdfunding per il finanziamento dello stesso.
E rieccoli qui, l’EP “My Dark Symphony” ci riporta in vita i Conception lì da dove ci avevano lasciati 21 anni prima, peccato che lo facciano con soltanto 26 minuti di musica e con una produzione non esattamente ottimale, che penalizza alcune idee, ma non possiamo permetterci di essere troppo schizzinosi verso una band che torna dopo 21 anni con un budget sicuramente limitato (che probabilmente renderebbe più complicato realizzare un vero e proprio album) e che ha dovuto affidarsi al crowdfunding per poter finanziare la registrazione. Però ascoltando queste 6 nuove tracce si sente che sono loro! Le melodie cupe, malinconiche e ricercate, le tastiere utilizzate in maniera intelligente e funzionale con i suoni giusti al momento giusto, poi Roy Khan regala una prestazione vocale eccelsa, poliedrica, dinamica, persino imprevedibile, riesce a cambiare timbro con gran destrezza, una piovra vocale potremmo definirlo. Il sound in realtà non è molto metal, le chitarre non sono nemmeno troppo in primo piano, creano l’atmosfera cupa senza imporsi, stessa cosa fa il basso, trame ben costruite ma senza rivendicare protagonismo. Un sound che appare persino inclassificabile, chissà se sarà forse riconducibile all’alternative rock/metal, davvero faccio fatica a dare un’etichetta a quello che ho sentito, in ogni caso questo EP sembrerebbe proprio la prosecuzione di ciò che avevano lasciato per strada, sembra infatti richiamare pesantemente il sound proposto in “Flow”, che come ricordiamo segnò un netto distacco dal power metal dei dischi precedenti in favore di un sound molto più votato alla melodia e alla ricerca di nuovi suoni e atmosfere; anzi, questo EP sembra levigare ulteriormente il sound rendendolo sempre meno metal.
In ogni caso state tranquilli. Le cavalcate chitarristiche e i synth eterei di “Grand Again”, l’atmosfera dark-tribale da foresta nordica autunnale di “Into the Wild”, le linee di basso sostenute ed il ritmo robusto di “Quite Alright”, la geniale “The Moment”, con il suo creativo e studiatissimo incipit al piano che non suona certo come la tradizionale intro di derivazione classica, ma anche con i suoi particolarissimi suoni orientali nella seconda parte, fino alla lenta, orchestrale e cupa title-track. Queste nuove composizioni hanno tutte le carte in regola per piacere a chi ha amato questa fugace band e da tempo ne attendeva l’insperato ritorno. Forse l’album si sarebbe anche potuto fare, non serviva tanto di più, bastava aggiungere la ballatona “Feather Moves”, presente nel singolo uscito poco prima e colpevolmente lasciata fuori, ampliare l’intro “re:conception” che così come si presenta sembra un tantino inutile e sforzarsi di comporre almeno altre tre tracce per arrivare a 10, esattamente il numero di tracce contenute nei quattro gloriosi album degli anni ’90, loro con la loro creatività avrebbero tranquillamente potuto farcela. Ma accontentiamoci, abbiamo ottenuto due cose, abbiam preso due piccioni con una fava: nuova grande musica da una band che pensavamo destinata all’album dei ricordi ma anche la dimostrazione che non sempre chi di speranza vive disperato muore! Speriamo un giorno sia anche la volta degli Ark, l’altra band del chitarrista Tore Østby, anche loro avevano gettato la spugna molto presto, addirittura dopo il secondo album, quel “Burn the Sun” che nel 2001 fu un fulmine a ciel sereno nel progressive metal dando nuove idee ad un panorama forse ancora troppo condizionato e dipendente dallo stile Dream Theater. Direi che a questo punto sognare è davvero lecito!
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