Ok, abbiamo aspettato 13 anni per un nuovo album dei Tool e ne siamo rimasti tutti soddisfatti… ma c’è anche chi ha dovuto aspettare molti più anni, anzi, ha dovuto aspettare un’insperata reunion perché la cosa avvenisse. Ad esempio in tanti aspettavamo il ritorno dei Conception, formazione cult norvegese del prog-power metal melodico anni ’90. Ci avevano già parzialmente accontentato con l’EP del 2018 ma evidentemente avevano solo scaldato i motori in attesa di qualcosa che sancisse il ritorno vero e proprio. Ed ecco che lo scorso aprile, mentre tutti eravamo chiusi in casa, è arrivato a farci compagnia, ad imporsi come fedele compagno di lockdown, il quinto album dei Conception, ben 23 anni dopo “Flow”.

“State of Deception” è un disco dove tutte le caratteristiche della band emergono senza problemi e che può tranquillamente essere apprezzato dai nostalgici della band, anche se forse la magia non è esattamente la stessa degli album storici. Vengono pressoché mantenute le coordinate già dettate nell’EP del 2018 e l’impressione è sempre quella che si voglia proseguire il discorso cominciato 23 anni prima con “Flow”. Il sound ancora una volta non è molto metal ma ha comunque una buona energia di fondo, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad una sorta di hard rock non particolarmente potente e dall’atmosfera sempre molto autunnale e nordica, possiamo affermare senza dubbi che aprile non è il mese ideale per un’uscita dei Conception, e chissà che forse non è proprio questa scelta discutibile a togliergli, inconsciamente, quella magia (per carità, anche “In Your Multitude” e “Flow” erano usciti in primavera ma avendo conosciuto i Conception nell’autunno del 2008 e trovandoli adatti all’atmosfera li ho sempre collegati alla stagione fredda e ho sempre prediletto i mesi invernali per ascoltarli)… Non mancano la classe e l’eleganza che da sempre caratterizzano il loro marchio di fabbrica, le tastiere atmosferiche ed azzeccate e le linee di basso metalliche ma sempre eleganti e mai invadenti continuano a fare la differenza, possiamo dire tranquillamente che i troppi anni di assenza non si fanno sentire affatto.

I brani in cui a mio avviso la band dà il meglio e che hanno più la possibilità di rientrare fra i classici sono essenzialmente tre: “Waywardly Broken” con le sue tastiere accarezzanti ma intense, il suo basso incisivo e i suoi tocchetti di chitarra ben studiati e raffinati; la ballatona struggente “The Mansion” (cantata con Elize Ryd degli Amaranthe) che con il suo piano delicato e sognante e il suo ritornello intenso non ha nulla da invidiare a “Silent Crying”; la conclusiva e malinconica “Feather Moves”, caratterizzata da tastiere sottilissime, pizzichi di chitarra appena udibili e un basso più deciso e pungente ma non troppo, scartata dall’EP forse perché si sapeva che meritava una collocazione migliore, scelta saggia perché all’interno di un album trova la sua naturale collocazione e anzi lo chiude in maniera splendida, crea una conclusione rilassata in un album mai davvero troppo teso, ha all’incirca la funzione che aveva “In Your Multitude” nell’omonimo album e sembra reggerne tranquillamente il confronto.

E vi sono brani che invece si distinguono per un tocco di originalità: “Of Raven and Pigs” ha una potenza smorzata, con chitarre molto levigate e un organo azzeccatissimo, un brano che ad un primo ascolto può sembrare persino spento ma poi ci si lascia ammaliare dalla sua precisione e compostezza, in più si sperimentano versi recitati con un parlato aggressivo che non si può non notare; le strofe di “By the Blues” invece poggiano su un pesante riff elettronico e hanno un cantato al limite del rap, un brano che sembra uscito da “Flow”, ne richiama le sperimentazioni e ne raccoglie degnamente l’eredità; coraggiosa anche “Anybody Out There” che ha un incedere lento e ruvido e poggia su una tonalità piuttosto insolita che nulla ha a che vedere con il mood piuttosto grigio dei Conception, ma soprattutto inserisce morbidi ed eleganti tocchi orchestrali, quasi impercettibili, che colorano un brano che altrimenti potrebbe sembrare un po’ spento e vuoto.

“No Rewind” e “She Dragoon” puntano invece di più sulla potenza ma lo fanno sempre sullo stile dei brani più heavy di “Flow”, non hanno certo i riff power di “Parallel Minds” o di “In Your Multitude”. L’intro “in: Deception” poteva invece essere sviluppata meglio ma è sicuramente meno inutile rispetto a quella dell’EP.

Riguardo alla prestazione dei musicisti salgono in cattedra soprattutto il cantante Roy Khan e il chitarrista Tore Østby; il primo conferma quanto mostrato nell’EP, mostra un’incredibile varietà timbrica potenziata negli anni, non avrà più i capelli ma avrà tutta la versatilità vocale di questo mondo; Tore invece si mette in luce con gli assoli, che non sono i classici assoli di chitarra dall’approccio hard rock come se ne sentono a bizzeffe, magari annoiando alla lunga, sono assoli “cantati”, volutamente freddi e “piagnucolati”, in quelle sequenze di note la chitarra sembra davvero cantare, emettere versi di disperazione, sono delle pennellate di grigio scuro su uno sfondo grigio chiaro, sono assoli che non possono passare inosservati.

Eppure la sensazione che manchi qualcosa c’è, forse la produzione non al top o il coraggio di osare che è piuttosto legato; diciamo che la produzione è in ogni caso migliore rispetto all’EP del 2018 ma che nell’EP c’era qualche idea stuzzicante in più. Personalmente avrei evitato l’EP e avrei inserito nell’album le tracce migliori, “Grand Again”, “Into the Wild” e “The Moment”, l’album ne avrebbe giovato e il mio giudizio sarebbe stato più alto di quello reale. Ma sono piccole osservazioni che svaniscono all’ascolto, non si può assolutamente essere delusi da quest’album, anzi, qui abbiamo i Conception come li avevamo lasciati, eleganti, malinconici, spigolosi al punto giusto, intelligenti nelle soluzioni; anche analizzando i singoli brani ci rendiamo conto che hanno più o meno tutti la stoffa di “classici” e in eventuali song-battles con brani simili del passato ci rendiamo conto che tengono testa benissimo, se perdono lo scontro lo fanno con un divario lievissimo; in poche parole sono loro e basta, il resto sono chiacchiere. Se avete amato i lavori storici e aspettavate il loro ritorno state tranquilli che ne sarete soddisfatti, specie se avevate apprezzato la sterzata intrapresa con “Flow”, già più delusi potreste rimanere se rimpiangete il sound più power metal dei primi tre dischi.

Il tanto sperato ritorno c’è stato, speriamo che questo disco non sia un fuoco di paglia ma sia soltanto l’inizio della ripresa del discorso, il discorso dev’essere ancora lungo, i Conception avevano ed hanno ancora tanto da dire.

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