La densità delle tenebre e l’imprevedibile durata dell’orrore. Questo il profilo tematico che circonda l’intera opera seconda del progetto C.S.I.; un disco che sconvolge l’organicità delle linee armoniche e scompagina la coerenza dell’intero disegno strutturale dell’opera prima (e insuperabile, forse a livello espressivo) “Ko De Mondo”.
Necessariamente controverso e tortuoso, il percorso di “Linea Gotica” tenta di seguire per mimesi la follia di un mondo torturato, oppresso, dolente. Sospesa tra Manierismo ed Espressionismo in termini figurativi, quest’opera a tratti volutamente sgraziata non può concedere molto all’idea della “Bellezza” in senso neo-classico, senza smorzare la sua stessa potenza rappresentativa ed evocativa. In un certo senso “Linea Gotica” si situa in un momento storico e meta-storico antecedente rispetto a “Ko De Mondo”: in quella meravigliosa commistione di post-punk esoterico-autobiografico si addensava il significato universalistico di una rinascita possibile attraverso la presa d’atto riparatrice delle già esplose scosse telluriche della Storia, in questo secondo atto le composizioni inseguono le luci inquietanti del “prima”, un attimo prima dell’accadimento, un istante prima dell’esplosione apocalittica, un senso di sospensione illusoria finale del tempo, nell’occidente così lontano il flusso d’aria che investe il passeggero nel tunnel del “tube” prima dell’arrivo del treno. Così è per l’incipit, e pezzo forte dell’intero album, le livide e spaventose “Cupe Vampe” sono gli inquietanti bagliori che nella notte gettano sulla terra spoglia le fiamme che avvolgono la Biblioteca di Sarajevo. Niente drumming, solo chitarre acustiche ed elettriche di Zamboni e Canali, il basso sincopato o elastico e stralunato (alla PIL) di Maroccolo, i “Magnellophoni” di Magnelli e il cantato liturgico e salmodiante (lo era già all’epoca) di Lindo Ferretti, in questo assoluto capolavoro lirico e musicale posto immediatamente in apertura ritraggono un mondo parallelo solo in apparenza, solo apparentemente civilizzato, essendo solo un labile velo ciò che separa la contemporaneità dagli abissi di un attuale “medioevo”. La canzone non è, come si può pensare, incentrata solo sulla tragedia balcanica e sulla dissoluzione dell’uomo e della civiltà inghiottiti dal folle baratro del genocidio, ma ha un sottotraccia politicizzato (ex Cccp): è una canzone sarcasticamente contro i pacifismi, politicamente scorretta, ma forse profondamente e tremendamente vera nel suo denunciare il fallimento della Civiltà di fronte alle oscure forze del sottosuolo più bestiale dell’Uomo e delle sue pulsioni.
“Sogni e Sintomi” formalizza e rende asettico l’incubo apparentemente appena concluso, sia sotto il profilo concettuale (chiara l’allusione psicoanalitica e la lettura sociologica) sia in termini musicali: il pezzo è praticamente un continuo e monotono pulsare di basso con accenni di chitarra elettrica smorzata che teatralizza la mancanza di spazio e respiro. Dopo l’orrore sembra un po’ un miraggio un po’ un respiro vitale ritrovato la bellissima cover di “E Ti Vengo a Cercare” di (e con) Franco Battiato (sua la voce nell’ultimo verso); il cantato di Lindo Ferretti è monocorde e forse volutamente contrapposto al Battiato che compare quasi iconizzando il sogno della salvezza; la canzone, inno all’universalità e alla divinità dell’amore è un chiaro contraltare all’orrore e all’abiezione senza fine messi in scena in “Cupe Vampe” una fuga nell’assoluto e nei significati divini più elevati e nobilitanti per l’essere umano. Il climax lirico e musicale dell’opera si chiude con la triade d’apertura: l’intreccio “spaziale” di chitarre elettriche che in una lunga fuga a due voci si susseguono nell’outro strumentale è qualcosa che nel resto di quest’album (e degli altri) non si potrà ripetere. La Storia passata della title track è un chiaro accostamento al disperato sguardo sul presente e alla disperante visione del futuro. “Linea Gotica” si apre con la citazione da un racconto contenuto ne “I Ventitré Giorni della Città di Alba” di Beppe Fenoglio:
"Alba la presero in duemila
il dieci ottobre
e la persero in duecento
il due novembre
dell'anno 1944"
La tragedia di Alba non è altro che una riaccensione del focus tematico sul tema della guerra e delle guerre (Alba come Sarajevo) attraverso la sottolineata indispensabilità della mediazione letteraria come possibile elemento ricostruttivo, veicolo della memoria. “Linea Gotica” è la più aperta esplicitazione del profilo concettuale del disco, memoria della tragedia ma appunto memoria conservata grazie alla parola scritta stampata su carta, sfuggita all’olocausto di “Cupe Vampe” (certamente la più violenta canzone dei C.S.I. mai scritta). Il recupero della dimensione narrativa permette di uscire dal vortice della follia non-mediata e dall’insopportabile intensità della triade iniziale, e tuttavia al tempo stesso di continuare il racconto in modo più sommesso; quasi superfluo leggere il riferimento alla linea difensiva appenninica italo-tedesca mirata a rallentare l’avanzata degli Alleati verso la Pianura Padana come un’altra sarcastica ode all’inutilità e alla stupidità dell’essere umano. La canzone che racchiude una delle dodici storie della Resistenza è poi incentrata sui protagonisti storici cui l’intero disco è dedicato: il “Comandante Diavolo” Germano Nicolini e il “Monaco obbediente” Giuseppe Dossetti. Sommessa è anche la musica, più sinuose le linee chitarristiche e il basso che sembra inseguirle; “Millenni” rappresenta un'altra linea di attacco al problema del degrado umano, nulla di anticlericale (la lettura sarebbe superficiale e abbastanza sciocca), percussiva (nonostante l’indicazione contraria nel booklet…) musicalmente il più noise-core degli episodi, racchiude rimandi interni all’inutilità sia dei baluardi difensivi (religiosi, in questo caso), sia dello strato di civilizzazione che fa apparire ciò a cui affidiamo la nostra speranza di salvezza come un presuntuoso simulacro; l’importanza della letteratura (vero sottotraccia dell’opera e forse dell’intero corpus discografico dei C.S.I.) ora riparatrice, ora consolatrice, ora illusoria simulazione, si avverte nella conclusiva “Irata”: antinomica (“Potessi dirti quello che nemmeno posso scriverti / esiterei nel farlo...”) conciliante poesia e morte (“oggi è domenica domani si muore oggi mi vesto di seta e candore”), desiderosa di una fuga (“non tornerò mai più dov’ero già”), ma dilatata tematicamente ad abbracciare una dimensione allargata della coscienza, oltre alla citazione altissima di Pier Paolo Pasolini in quanto “tutti quelli che denunciano ed evidenziano il degrado umano contribuiscono, malgrado loro, ad aumentarlo e questo ‘malgrado’ è tutto ciò che resta alla nostra buona coscienza”.
Un disco necessariamente e volutamente controverso, buio, violento, a tratti labirintico e intensamente poetico assieme, musicalmente affascinante, anche se non privo di alcuni “effetti” di troppo che ne sconfessano in parte la scelta “radicale” espressa a livello di sound. Non per questo immeritevole del titolo di capolavoro.
“Una irata sensazione di peggioramento”
By ’πνοςphere boy ©
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