Difficile dire con quanto spasmo io abbia atteso questo cd. Attendevo i Converge al varco.
Temevo che anche loro avessero scelto di far coincidere l’evoluzione stilistica con l’involuzione musicale, seguendo la svolta minimalista dei maestri Neurosis, segnando il passo retrocedendo.
"Jane Doe" mi aveva sfiancato con la sua feroce agonia; mai avevo sperimentato tanta tensione, racchiusa in tutte le sue forme espressive in un'unica opera. "You Fail Me" mi aveva spiazzato; la scelta di esaltare la sostanza della musica riducendo all’osso la forma aveva dato i suoi frutti, ma aveva incanalato l’esperienza sonora in un qualcosa di controllato, forse razionale nel suo nichilismo.
Attendevo i Converge al varco. Vedevo il bivio che gli si poneva davanti. Strutturazione o Destrutturazione. E loro hanno scelto la terza via. L’Ibridazione.
Hanno unito l’urlo di disperazione di "Jane Doe" allo sguardo sanguinoso di "You Fail Me". Tutto in questo disco è ibrido, a partire dall’artwork: un’ombra di colomba si getta verso di noi, liberatasi dallo stop impostogli dall’ombra della mano che appariva nel disco precedente; dietro di lei un quadrante, lo stesso che appariva dietro alla milite ignota cinque anni fa. L’impaginazione a ventaglio (la stessa di Y.F.M.) racchiude al suo interno nuove indefinibili figure della milite ignota, (stampate sullo stesso cartoncino di J.D.) e ai suoi estremi, dove due anni fa avevamo trovato “living everyday, dying everyday” abbiamo “their days are over, our nights are here”. I testi sono come li avevamo lasciati, indivisi tra di loro, come un unico poema.
Ma l’ibrido più scioccante di questa esperienza è la musica.
La partenza al cardiopalma (saggiamente intitolata Heartache) ci riporta indietro negli anni, quando premendo il tasto play la nostra sanità mentale era stata cancellata in un istante, inesorabilmente travolta e dilaniata dall’entità chiamata Concubine. Mid tempo e sfuriate a velocità aliene tornano meschinamente a sfondarci le membra, mentre sentiamo le urla di feroce dolore di Jacob Bannon che si uniscono alle nostre.
E proprio quando aspettiamo l’onda d’urto di questa esplosione con una nuova Fault and Fracture, ecco che ci arrivano invece delle schegge folli in puro stile Y.F.M.; i loro nomi sono Hellbound, Sacrifice e Vengenance. Ci inginocchiamo, trapassati in ogni punto del corpo, sanguinanti dolore da ogni poro. E non sono passati neanche cinque minuti.
E qui avviene un ritorno quanto mai gradito; Weight of the World è infatti un brano in puro stile J.D. (Hell to Pay), quasi sludge nel suo incedere lento e trascinato; sembra nella sua semplicità e brevità, quasi un pezzo di raccordo, inserito per alleggerire la tensione. Ma purtroppo essa ne risulta moltiplicata e non smorzata. E certo per la nostra salute, visto i tre brani successivi, forse sarebbe stato meglio che i Converge avessero mostrato un po’ di pietà nei nostri confronti. La title track (consigliata la visione del video) è forse il pezzo più “classico” del cd; è la Fault and Fracture che non ci aveva investito in precedenza, che con il suo incedere inesorabile torna a rinnovare il massacro sonoro che per pochi minuti era stato interrotto, con il suo alternarsi di boati e fruscii. Ma la parte più sconvolgente del disco deve ancora arrivare.
Plagues ha una struttura semplicissima, quasi drone come concetto: si tratta di due riff mastodontici, che si alternano senza soluzione di continuità, per essere poi nel finale accompagnati dal resto degli strumenti in una catarsi vera e propria. Per quasi cinque minuti ci è tolta la possibilità di respirare, tanta è l’oppressione che questo brano crea. Ma è solo la porta per la suite del disco, Grim Heart/Black Rose. La sua posizione è certamente un rimando alla title track del disco precedente, e la seconda parte della canzone lo è anche musicalmente; ma nella prima parte il suo incedere cadenzato e disperato ci rimanda inesorabilmente alla canzone che aveva concluso J.D. Interessante la scelta di farla cantare da un ospite, Jonah Jenkins dei Milligram, la cui voce malata si sposa alla perfezione con l’atmosfera di sconfitta che genera il brano.
Il disco potrebbe benissimo concludersi qui, ma invece continua, con brani non sempre all’altezza della prima parte. Degne di nota sono Lonewolves, con una bellissima parte in spoken vocal e Bare my Teeth, pezzo piuttosto scoinvolgente, poiché sembra in tutto e per tutto un brano proveniente dallo storico cd When Forever Comes Crashing.
Concluso l’ascolto sono chiari tutti gli elementi che fanno di questo disco un ibrido: la voce di Jacob Bannon mantiene l’impostazione cupa di Y.F.M. e continua a sottolineare i repentini stoppati di batteria, ma in assenza di questi ultimi riprende il cerebralismo di J.D. che tanto avevamo amato. La chitarra riacquista in gran parte il gain che era stato completamente eliminato nel cd precedente e alterna riff molto asciutti ad altri fluidi e alieni nel suono. La batteria si concede molte sfuriate in meno e sottolinea molto di più sia le parti di voce sia quelle di chitarra; soprattutto diminuisce il numero di blastbeat a velocità folli che avevano caratterizzato Y.F.M. Il basso è forse l’elemento più conservatore, interamente suonato col plettro e molto punk.
Chiedo scusa per l’oscenità e prolissità di questo mio scritto, ma sentivo il bisogno di recensire l’ultimo capitolo di questo gruppo, che mi ha cambiato la vita.
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