L’avanguardia colta e post-moderna di matrice mitteleuropea sviluppatasi su scala continentale tra gli anni '70 e '80 ha individuato nel movimento della 'Neue Slowenische Kunst' (epicentro: la capitale slovena Ljiublijana) uno dei suoi poli maggiormente vitali.

Si affermarono parallelamente in quel periodo, tra i vari generi, l’Industrial Rock (Throbbing Ghristle, Test Department, Cabaret Voltaire… ), l’Electronic Body Music, (capiscuola Skinny Puppy e Ministry), e sonorità meno “codificate” come la commistione di Art Rock e New Wave dei primi Clock DVA o l’elettronica “metronomica” dei berlinesi Kraftwerk. Dal controverso (e fondamentale) progetto dei Laibach, che si posero l’ambizioso programma di “rilettura post-moderna del patrimonio pop mondiale”, si affermò l’attitudine stilistica all’assemblaggio di più generi e referenti culturali fino ad ottenere una forma architettonica unitaria e omogenea, una stratificazione finissima di rimandi stilistico-concettuali che facevano apparire hits di ogni tempo (da “Let It Be” e “The Final Countdown”) riletti in quell’ottica come deformati dall’obiettivo grandangolare della storicizzazione colta, e quasi “sfocati” o “sgranati” in singoli “pixel” dalle sovrapposizioni stilistiche successive.

Nell’organigramma di questa scena si sono inseriti in modo deciso alla metà degli anni '90 i Coptic Rain, duo sloveno composto dal musicista Peter Penko e dalla vocalist Katrin Radman. L’esordio con l’album “Dies Irae” connotò immediatamente la formula musicale del duo: drum machine a cadenza ora ipercinetica e quasi thrash, ora più lenta e ipnotica, chitarre campionate e sferzanti, effetti eco di rimbalzo, cantato alla PJ Harvey/Babes In Toyland prevalentemente filtrato e distorto con momenti eterei quasi “elegiaci”. Riassumendo, un gruppo che citava, tra le influenze principali, Metallica, Nine Inch Nails e Bauhaus. L’album, promettente ma forse un po' “grezzo” è seguito da questa seconda opera, intitolata “Eleven: Eleven”.

Le differenze sono diverse, ma una in particolare si coglie subito: la maggiore consapevolezza del perimetro stilistico e culturale di quel movimento, e quindi del limite del raggio d’azione, ma al tempo stesso delle potenzialità rimaste fino ad ora inesplorate. I risultati di questa “maturazione” si avvertono: un uso più sapiente di loops e sequenserces, ritmi maggiormente variegati, maggiore trasparenza dell’intuito melodico. Se brani come “Double Edge” o “Unseen-Untold” sembrano focalizzare il profilo stilistico degli autori di “Dies Irae”, è in brani come “First Wave”, sospeso e avvolto in un mood quasi ambient-industriale, fino ai gioielli dell’opera: la cover di “Sweet Home Under White Clouds” dei Virgin Prunes (ineccepibile, come lo fu la cover che i Therapy? realizzarono di “Isolation” dei Joy Division) seguita dall’epica cavalcata “Videodrome”, capolavoro ritmico/strumentale, guidato dai virtuosismi vocali, e soprattutto massima espressione dell’arte del campionamento, che ricorda “Scarecrow” dei Ministry e gli Young Gods di “TV Sky”.

Maggiormente poliedrico, autoconsapevole e “aggettante” verso i nuovi orizzonti della “musica virtuale” e della “performance art” multimediale, questo “Eleven: Eleven” è finora quanto di meglio il duo di questo angolo di Mitteleuropa sia riuscito a realizzare, ma forse è anche qualcosa che lascia intravedere un talento, davvero impressionante che si cela dietro il “wall of sound” delle singole canzoni: quello dei suoi Autori Peter e Katrin. La pioggia che cade tra il viaggio interiore e allucinatorio di “A Rebours” e il labirinto spazio-comunicativo di “Matrix” disegna un possibile profilo dell’esistenza.

Carico i commenti...  con calma