Vi è un mondo che, seppur vivente ancor’oggi, sembra sepolto nella polverosa monocromia del tempo. Un mondo che riaffiora di tanto in tanto nei pensieri del presente, spesso banalizzato alla stregua di una moda temporanea, a volte ricordato distrattamente oltre il muro di una maledetta diga e subito richiuso nel cassetto. Un mondo che in vero racchiudeva vite aspre come le vette che le dominavano e che troppo spesso trascende dal ricordo delle generazioni del presente.
Già, le vette… esse erano le regine incontrastate di questo reame di sofferente bontà; le montagne come fiere compagne di vita e nello stesso tempo aguzzine con la loro impervietà, amiche e nemiche di gente straordinaria nella sua semplicità. Scrigni di risorse e baratri di crudeltà. Furono le montagne a creare il mito del Corpo d’Armata Alpino, vanto eroico di un’Italia che fu, generato dai pendii sassosi e nudi del Brenta così come dai verdi boschi del Piemonte o dalle assolate cime della Sicilia. Questi uomini cocciuti come carpini e buoni come il pane sacrificarono tutto ciò che possedevano e partivano, i muli al loro fianco e le penne nere sul loro fido compagno di panno. Gente di montagna, arcigna e temprata, ligia al dovere; obbediva senza fiatare se non per regalare rudi parole cortesi. Oppure per cantare…
Il canto popolare da sempre rappresenta parte del patrimonio culturale di una comunità; ma se in epoca moderna esso spesso non è che veicolo di pensieri non sempre degni di essere diffusi, esso in passato assurgeva al ruolo di vera e propria testimonianza storica. Esso era la memoria per gli analfabeti, era compagnia per chi non poteva badare ad altri se non se stesso; il canto era il fiero amico del camino nelle fresche serate primaverili ove le fatiche del lavoro sparivano nel fondo dei bicchieri di raboso. Oppure, semplicemente, il canto era svago. Per delle persone devastate nel loro essere tali dalle guerre e dagli stenti e che provavano, foss'anche per un solo istante, ad evadere, a tornare coi ricordi alle loro vite fatte di niente eppure ricche di tutto, ecco che le pecore di un Toni Bortolamoni o le pene d’amore di una Dosolina erano uno squarcio di normalità, un fugace appiglio di felicità. Le esperienze di questi fenomenali uomini e combattenti, del resto, si riflettono nella limpida innocenza delle loro meravigliose voci: possiamo in minima parte immaginare i loro stati d’animo (in canti come la struggente “Era una notte che pioveva” o la disarmante “Ta-pum”), ma i loro cuori rimarranno antichi forzieri di vicende che non torneranno forse più.
Voglio dunque parlare di canti che sono pietra d’angolo della nostra tradizione popolare, di parole e melodie scolpite nell’animo di larice dei paesini di montagna; vorrei parlare solo di questi canti. Se non mi riferisco ad alcuna raccolta in particolare è perché spesso le trovo malinconiche banalizzazioni nelle loro copertine obbrobriose con le word-art a coprire la bellezza mozzafiato dei nostri monti, magari accatastate nelle traballanti bancarelle delle fiere, nelle mensole di un improbabile folk italiano. L’immortalità di certi patrimoni canori non è e non dovrebbe essere fenomeno di costume fine a se stesso, ma fondamento della nostra stessa storia da tramandare come un tesoro ai nostri figli: “Cantiam la Montanara per chi non la sa”, direbbero le Penne Nere.
Se mi riferisco al Coro della Società degli Alpinisti Tridentini è per la sua ottantennale serietà e per ciò che essa rappresenta: questi montanari segnati nei volti, le loro chiome canute e le loro giacche, brune come la terra dei loro monti spesso raccontati con sincerità (che si evochi la bellezza sensuale della Paganella o il fascino crudele del Monte Nero), ricordano le imprese di Divisioni leggendarie allo stesso modo degli attimi della vita di sempre; essi vi riescono commuovendo con le loro voci limpide che si inerpicano come edera, un ramo sull’altro, sui muri del ricordo.
Se sto scrivendo queste parole, è perché ho nostalgia – o quantomeno coscienza - di un mondo che non ho mai vissuto. Magari scrivo perché adoro ciò che questi uomini erano e sono e perché rabbrividisco alla struggente purezza del loro canto. Oppure scrivo perché voglio contribuire per quanto mi sia possibile a preservare la loro gloriosa storia che riposa in un cimitero di rose ed il loro bel presente fatto di picchi proiettati in cieli cobalto di sole o bianchi di neve.
Di certo scrivo pensando adorante alla mia dolce nonna, perché quando sente le canzoni degli Alpini le brillano gli occhi.
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