C'è del marcio in Svizzera. Sì, ci dev'essere qualcosa di malefico che turba l'esistenza dei nostri pacifici vicini d'oltralpe. Qualcosa che evidentemente sfugge ai nostri occhi mediterranei.
Cosa, ci chiediamo, avrà mai portato la terra dei pratini ben rasati, del cioccolato e degli orologi a cucù (tanto per scadere nei luoghi comuni) a generare entità mostruose come Hellhammer, Celtic Frost, Messiah, Samael, Sadness, Alastis (tanto per citare i nomi più noti)?
Azzardo un tentativo di interpretazione socio-psicologica alquanto spicciola: forse è proprio l'ordine ad esasperarti, forse è la mancanza di minacce esterne che ti costringe a guardarti dentro e sondare il marcio che è in te. "Basta con questi maledetti pratini!", potrebbe un giorno aver sbottato Tom G. Warrior, decidendo di dare vita all'entità più mostruosa partorita dal metal degli anni ottanta (Bathory permettendo, che comunque si merita un discorso a parte).
E' come se l'unico antidoto all'Ordine fossero il Caos e l'Annichilimento. E forse, il mix unico ed insano degli amici svizzeri sta proprio in una sana e fisiologica voglia di far casino che si va a macchiare, inesorabilmente, dei fantasmi che scaturiscono dallo sforzo introspettivo indotto. E così, laddove la musica degli Slayer, formazione simbolo dell'estremo di metà anni ottanta, rimaneva (e rimane tutt'ora) musica del terrore (le minacce di cui ci parla/urla Araya sono sempre esterne, che si tratti di una mina che ti esplode fra le palle o il coltellaccio di un serial killer pronto a sgozzarti), la musica dei Celtic Frost è di contro musica dell'orrore, del disagio intangibile, poiché ci parla di una minaccia che proviene da Altrove, non si sa bene dove, probabilmente da noi stessi.
E' il salto di paradigma fondamentale che hanno compiuto i Celtic Frost, e con essi il metal intero, e che porterà al nichilismo del vero black metal e alle ossessioni del doom più deprimente: una sorta di processo di introversione in cui il metal volge verso se stesso la violenza da sempre celebrata contro gli altri. La musica dei Celtic Frost è infatti implosione, introiezione di forze oscure, un subbuglio interiore che all'esterno si traduce in Apocalisse, megalomania, senso dell'abisso: ogni assalto di violenza è in realtà un pugno nel vuoto, una lotta contro un nemico invisibile, forse contro la propria ombra. Un'avventura che culmina inevitabilmente nella propria Sconfitta (ce lo vedo, stanco e perduto, il Fisher che in giacca e cravatta si stende nella sua bara di massiccio cioccolato svizzero!). La rivoluzione dei Celtic Frost è in definitiva l'aver coniugato l'aggressività del metal estremo (spurgandola provvidenzialmente dalle tendenze birraiole dei Venom) con le lacerazioni decadentistiche (ed anche romantiche) proprie dell'universo dark (con quel tocco di Cabala che non guasta mai!).
Premessa indispensabile, questa, per introdurre il thrash metal dei Coroner, altri svizzeri sull'orlo di una crisi di nervi, che proprio dalle basi gettate dai conterranei Celtic Frost, intraprendono un viaggio estremamente personale ed entusiasmante. Purtroppo, aggiungo io, ignorato dal grande pubblico.
Scioltosi all'inizio degli anni novanta nell'indifferenza generale, i Coroner, si può dire, non hanno sbagliato un colpo nella loro pur breve carriera: partiti da un thrash metal virulento di evidente marca teutonica (quello di Destruction e Kreator, tanto per intendersi), ma molto più tecnici e già inzuppato delle ossessioni ereditate dai primi Celtic Frost, nell'arco di cinque imperdibili album, i nostri sono stati in grado di allestire una proposta sempre più raffinata ed intelligente, ma senza mai rinnegare il verbo del metallo.
Dalla violenza del formidabile "R.I.P.", già venato di quelle ambientazioni macabre che caratterizzeranno sempre più la formazione elvetica (basti pensare alla scelta di mettere, al posto delle canoniche foto, le urne mortuarie con sopra impressi i nomi dei tre membri della band), si giunge gradualmente ad album maturi e cerebrali come il capolavoro "Mental Vortex" e l'impenetrabile "Grin", già fuori dai canoni classici del thrash, e che io reputo uno degli album più geniali del metal tutto.
"No More Color", targato 1989, è il terzo album, un po' lo spartiacque fra la violenza degli esordi e le atmosfere inquietanti che caratterizzeranno gli album della maturità. Che non ci troviamo innanzi ad una proposta dozzinale, questo lo capiamo già dall'insolita quanto efficace copertina, che, al posto di satanassi e sgozzamenti vari, ci propone, in una posa di truce disperazione, il batterista Marquis Marky, paroliere e genio visionario della band (suoi infatti i testi, le copertine e le trovate sceniche che hanno animato le devastanti esibizioni dal vivo). Quello che investirà le nostre orecchie è un thrash assai violento ed estremamente tecnico, sul quale aleggia una tetra atmosfera di decadenza e perdizione. Senza dimenticare un tocco di cinismo e di nero sarcasmo. Un vedo-non vedo che non scade mai in banali effettacci horror, ma che conserva il linguaggio pragmatico del metal, tingendolo qua e là di suggestioni dark.
I tre danno del tu ai propri strumenti: il basso pulsante ed inarrestabile di Ron Royce, le continue evoluzioni del già citato Marquis Marky, ma soprattutto l'incredibile chitarra di Tommy T. Baron, certamente uno dei musicisti più dotati del metal di sempre, abile nel tessere ritmiche micidiali quanto nel sciorinare assoli di classe sopraffina. Non vorrei dire una castroneria, ma il ragazzo mi ricorda in più di un frangente il maestro Jimi Hendrix (tributato, fra l'altro, con la cover di "Purple Haze" nel precedente "Punishment for Deacadence"): il tocco è tagliente e preciso come il genere richiede, ma se per un attimo lo spogliamo della spigolosità tipica del metal, il riffing del nostro si rivela un vero fiume in piena, lontano dagli schematismi rigidi del thrash che prevedono il continuo roboare di riffoni spacca-ossa. Baron è in realtà una fucina inarrestabile di riff intricati, fughe improvvise, assoli fulminanti, scale neoclassiche, e il tutto avviene così fluidamente e con gusto che in effetti ci pare di essere più vicini al mancino più celebrato del rock che a gente come King e Hanneman. A chiudere il quadro, il grugnito metafisico del bassista Ron Royce, i cui vocalizzi, se non sono all'altezza delle parti suonate, conferiscono al tutto un senso di rabbia misto a repressione ed amarezza, che di certo non guastano in un contesto quale è quello di cui stiamo parlando.
La musica dei Coroner non è facile, del resto, e forse è per questo che il grande pubblico li ha sempre ignorati: non ci regalano ritornelli trascinanti, i Coroner, non ci rovesciano stacchi ultra-mosh da farci sbazzare nel pogo; i nostri puntano più che altro sull'atmosfera, ritagliano angoscianti scenari con la precisione di un chirurgo: arpeggi tenebrosi che si aprono d'incanto nel bel mezzo delle sfuriate, tapping wagneriani che spalancano improvvisamente le porte su altri mondi, ritmiche ipnotiche che trascinano l'ascoltatore nella più buia paranoia. E' un thrash kafkiano quello dei Coroner, potremmo dire, un labirinto pervaso da minacce invisibili ed inquieti presagi. Un coltello affilato che ti recide l'anima oltre che la carne. Come l'affondo della micidiale opener "Die by my Hand", folle soliloquio dove la mano dell'assassino è in realtà la Grazia che riceviamo e che ci libera da una morte ben più lenta e peggiore che è la Vita. O i crudi scenari abbozzati in "No Need to be Human", desolante affresco sulla misera condizione di disumanizzazione che il genere umano sta vivendo, esempio palese di come le ossessioni di cui ci parlano i Coroner non sono così lontane dalla realtà che quotidianamente viviamo.
Solo 34 minuti bastano ai Coroner per portarci nella loro malsana dimensione, un martellare senza posa che ci conduce alla conclusiva "The Last Entertainment", una sorta di "Call of the Ktulu" dell'oltretomba, aperta da cupe tastiere e trainata da un oscuro recitato che ci lascia con l'impressione di aver assistito alla fine del mondo.
Molti se li sono persi al primo giro: è l'ora per costoro di redimersi e ritornare sui propri passi. Perché perdersi i Coroner significa perdersi il meglio.
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