Rintocchi neurosiani, “Serve or Survive” nei suoi otto minuti si sviluppa nel tipico schema crescendo/esplodendo/calando/ripartendo che il genere (il post-hardcore) prevede. E' prevedibile l'imponente opener, segue un copione già molte altre volte visto e sentito, ma è perfetta per introdurre l'ascoltatore nel mood dell'album, nero e confuso nei suoni come appare in copertina: le voci mantriche, roche, oscure, scartavetranti, che si incrociano con l'acido starnazzare di uno psicopatico dietro al microfono, rivestono di una forte connotazione spirituale (ed è questa la peculiarità del caso) il nichilismo ed il truce degrado urbano che sono gli assi portanti della visione artistica dei Corrections House (sembra una contraddizione di termini, ma è così).
Imprevedibile, piuttosto, sono le movenze di questo “Last City Zero”, vero manuale del “perfetto post-hardcore” edizione aggiornata all'anno 2013. E quindi dotato delle dovute appendici, ossia le inevitabili inclinazioni verso territori stoner, sludge, noise, avantgarde, ambient, drone, folk e chippiùnnehappiùnemetta, con un occhio però buttato indietro verso l'industrial/metal alienante dei grandi Godflesh (scelta tutto sommato non così frequente di questi tempi, laddove il post-hardcore preferisce scansare la tecnologia e riscoprire piuttosto le radici, recandosi dalle parti della psichedelia, dello stoner, del rock degli anni settanta, se non addirittura abbracciare il cantautorato tout court).
Non così prevedibile, si diceva, il susseguirsi delle otto tracce, e infatti la seconda, “Bullets and Graves”, di post-hardcore non ha praticamente niente: un urtante riff reiterato con maniacale ossessività e drum-machine caricate a manetta (non ci sono né bassi né batterie nella Casa delle Correzioni) come solo il buon Trent Reznor sapeva fare. Ancora industrial, quindi, ma anche impatto frontale, iconoclastia punk, per il pezzo più violento e stordente dell'album. Bello soprattutto dopo svariati ascolti.
“Party Leg and Three Fingers” (altri sette minuti) riprende il discorso lasciato in sospeso dalla magmatica traccia iniziale: solito riff solitario di neurosiana memoria, solito rantolo che annaspa nel fango, il pulsare tribale che poi diviene marziale (quasi par di sentire i colpi secchi di una infernale macchina da scrivere) fra maestosi arrembaggi chitarristici e voci infettate. In più, un bel sax schizzato nel sottofondo.
Ma la storia cambia di brutto con l'irrompere travolgente dell'impasto di chitarra classica ed elettronica deviata di “Run Through the Night” (e chi se l'aspettava, a questo punto!), epica cavalcata western dal forte sentore apocalittico (sublimi le stilettate di sassofono che richiamano alla mente persino certe cose dei Death in June). Le grida corrosive si stemperano in un recitato cavernoso ed evocativo, tanto che potremmo azzardare la definizione Jonnhy Cash meets Wolves in the Throne Room, per via di quella coda elettrica di chitarra “tremolante” che conclude il brano all'insegna del più sfrigolante weird black metal (sì, forza ragazzi!, lo vedete che piano piano ci avviciniamo?, ci siamo quasi: alla tanto agognata fusione fra folk apocalittico e black metal!).
Con “Dirt Poor and Mentally Ill” l'album è finalmente decollato, i Corrections House volano alto, sembrano parlarci da un altro pianeta, e da quello ci riversano addosso melma nera, rifiuti tossici e fulmini: stoner/sludge sulfureo al servizio di un sound marcio, potente, claustrofobico, opprimenti, dove le percussioni si fanno tentacolari, multicolori, e sopra di esse si erge il solito riffing corrosivo, e dietro al microfono la solita prova straccia-corde-vocali. Il brano si conclude con una talking-voice che si trascina epicamente verso il tragico finale, dove la voce agonizzante e bavosa è lasciata da sola a ripetere il titolo del brano. Si conclude così la parte più propriamente virulenta dell'opera: le ultime tre tracce sposteranno il sound dei Nostri su un piano diverso, almeno apparentemente più “calmo”, se vogliamo.
Con il brano successivo, infatti, torna la chitarra arpeggiata e l'ondivago lamento del sax, strumento che va e viene, ma si fa sempre apprezzare, soprattutto nei momenti di “quiete”, marchiando a fuoco la musica del quartetto americano: “Hallows of the Stream” è un incubo dark-noir, dove uno sconsolato cantautorato si sposa alla perfezione con ambientazioni notturne e malsane, degne di una pellicola di David Lynch. Segue la title-track, altro bilioso talking per voce sfavata marcia, una parentesi intrisa di inquiete suggestioni metropolitane, perfetta anticamera per il pezzone finale, “Drapes Hung by Jesus”, che completa il mosaico con una forte iniezione di insana drone-ambient. Per la maggior parte strumentale, questa lunghissima ed estenuante ultima traccia (quasi dieci minuti) può essere suddivisa in tre fasi: inizio dronico con incespicanti partiture di oscura elettronica (qualcuno ha detto Coil?), mostruosi riff di chitarra come corpo centrale, finale moribondo a base di feedback, sax ubriaco e terrificanti grida perse nel vuoto (come lamenti di anime dannate costrette a vagare nel nulla eterno), a rimarcare, come se non si fosse capito nei tre quarti d'ora precedenti, la visione irrimediabilmente pessimistica e completamente priva di speranza dei Correction House nei confronti di una società (la nostra) oramai allo sfacelo (ma su questo argomento non credo vi sia bisogno di dilungarsi ulteriormente, basta ascoltare).
I Correction House, concludendo, risultano abili nel miscelare e cucire assieme elementi distanti, finendo per allestire un insieme coerente, per quanto osceno e disturbante; si portano oltre i confini fino ad oggi tracciati dai maestri del genere, ma senza dimenticare la tradizione. Confezionano il disco perfetto (o quasi: avrebbero giovato suoni più corposi e compatti, laddove non solo mancano un basso ed una batteria, ma una sola chitarra fatica ad ergere quel muro di suono che la situazione avrebbe richiesto), sebbene costoro abbiano messo insieme il tutto in quattroequattrotto, jammando (e forse divertendosi, anche se non sembra) ed accumulando materiale in sole quattro sessioni. “Last City Zero”, infine, porta con sé tutti i pro (classe, palle, esperienza) e tutti i contro (vecchiaia, mestiere, un'ispirazione altalenante) che sono tipici dell'operato di un super-gruppo formato da gente che ne sa a palate. Già, dimenticavo i nomi:
Scott Kelly (Neurosis) – chitarra, voce
Mike IX Williams (Eyehategod) – voce
Sanford Parker (Minsk) – synth, programming
Bruce Lamont (Yakuza) – sassofono
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