Nel alt-rock australiano e muffito, esibitamente muscolare e molto, troppo DJ Ringo-Courtney Love del singolo Pedestrian At Best, Courtney Barnett lucidamente dice: «Put me on a pedestal and I'll only disappoint you». Credo sia il caso di assecondare la volontà della cantautrice più hypata del momento, che per quanto sia spinta un po' ovunque oltre il suo naturale ambito e i reali meriti, non è idiota né priva di talento. Quindi no, meglio non mettere sul piedistallo l'opener Elevator Operator, ché di pezzi così sono piene le discografie di gruppi ignorati tipo Lovely Eggs. O An Illustration of Loneliness, una filastrocca radio-friendly di cui sarebbe capace anche una Juliette Lewis. Ma neanche Dead Fox che vive soprattutto di facile orecchiabilità e buone intuizioni strumentali, tipo le parti di chitarra in reverse del ritornello, ma non mostra particolare ispirazione. Debbie Downer, poi, scivola via facile come scivolerebbe via una Taylor Swift o una di quelle cose che passano la radio e tu senti-non senti mentre ti scaccoli al semaforo e si è rotto il mangianastri, lettore cd o quello che è. Neanche l'organetto aiuta; anzi.
C'è anche una fastidiosa patina di ostentata semplicità, di fare dimesso da indie folks à la She and Him, che il titolo Sometimes I sit and Think, and Sometimes I Just Sit ben riassume. Ok: sei naif, brava.
Il peggio è detto: dovrebbe essere scongiurato il rischio di sovraesposizione e conseguente delusione. Si può ora venire al buono. E comunque ce n'è: il meglio sta nei sette minuti tondi di Small Poppies, un saltone ai migliori anni novanta. Con la morbidezza vocale di Barnett più scazzata che sexy, più bimba ribelle che Hope Sandoval e fraseggi di chitarra con tremolo che a tratti fanno surf e riverberi liquidi, sul finale struggono e stonano, e il basso - delicatissimo, in situazioni così - che in plettrato minimale snellisce, sdrammatizza e se Hey era così bella, quanto merito aveva Kim Deal? La poetica della quotidianità concreta, appuntata su blocchetto o in bozza su cellulare, viene qui fuori con tutte le sue potenzialità. E Depreston è un country morbido, con spazzole e senza particolare inventiva di sorta, ma la voce della Nostra esce trionfale, sospirata, infantile e malinconica che non perde un semitono. Canta di andare a vivere in una nuova casa, la vecchia coinquilina è morta da poco e ha lasciato lì le sue cose.
Ma anche il giro pulp-surfeggiante di Kim's Caravan regala delle gioie e sa esplodere ossessivo in un «So take what you want from me» lacrimoso più che lagnoso. E l'anthem nannimorettiano di Nobody Really Cares If You Don't Go to The Party, «I wanna go out but I wanna stay home» funziona, perché dice molto dell'attitudine australiana a certi ritornelli da dinosauri rock con chitarroni, ma nel frattempo riesce in qualche modo a svecchiare il tutto, mentre ruba nettamente agli Stealers Wheel.
Pessimismi cosmici, misantropie e correlativi oggettivi, ma senza ermetismi, perché Barnett pare tutto sommato una sempliciotta autentica, una che ti offre un giro di birra al circolo. Semplicità, ingenuità apparente e genuinità vanno gestite al meglio, perché la stucchevolezza è lì in agguato e quanto colpisce, di questi tempi. Barnett dimostra di avere l'intelligenza e i mezzi per non caderci, ma questo suo album d'esordio risulta centrato solo a tratti, decisamente meno del doppio EP che l'ha preceduto - da procurarsi, anche solo per Avant Gardener - pur restando un lavoro complessivamente godibile. Per il momento, nulla più.
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