Ecco, c’è questa scrittrice statunitense, nata in Georgia nel 1925, Flannery O’Connors, morta a 39 anni di LES, lupus eritematoso sistemico, autrice di due romanzi e di qualche racconto, che pare abbia influenzato diversi rocker e songwriter (tra gli altri Nick Cave, Bruce Springsteen, Natalie Merchant, Lucinda Williams).

All’altezza del loro quarto album, i fratelli Timmins si sono imbattuti sulla scrittrice “campagnola” e “tomista zoticona”. La O’Connors infatti viveva in campagna, allevando pavoni, ed amava l’aquinate e la sua Summa Teologica.

Questa scrittrice, in barba al pubblico degli stati del Sud che scandalizzò enormemente, non si perde nei farraginosi labirinti della coscienza e nemmeno in veleggiamenti romantici. Ma insegue una visione integrale del mondo. Un reale concreto, che avverte come incompiuto e misterioso. Da contemplare in una visione anagogica, capace cioè di vedere i diversi livelli di realtà in ogni situazione e/o cosa. Livelli di un mondo costituito non da fatti, ma da relazioni.

Meriterebbe di essere ricordata anche solo per come commentò l’avvenimento che la aveva vista protagonista, a 6 anni, quando la TV di stato l’aveva ripresa per aver insegnato ad un pollo a camminare all’indietro. “Fu il momento culminante della mia vita. Tutto quello che è successo dopo, è stato un anticlimax” .

I tre fratelli Timmins, Margo cantante, Michael chitarrista e compositore, Peter batterista, più l’amico Alan Anton bassista, formarono i Cowboy Junkies a Toronto nel 1985. Dopo un estemporaneo esordio che omaggiava il Blues del Delta, con “The Trinity Session” (1988) scoprirono la loro vocazione per il Country alternativo, con lente ballate d’atmosfera, crepuscolari, finanche narcolettiche, che influenzeranno lo Slowcore (Codeine in primis). È qui che va ricercato il loro apice espressivo. “Trinity” fu registrato nella chiesa della Santissima Trinità di Toronto, in presa diretta, senza pubblico, in un sol giorno, spartendo equamente il materiale tra pezzi autografi e cover. Constava di trame esili, minimali, ma avvolgenti e melliflue, per una voce soave ed evanescente.

Poi, nel terzo lavoro, si erano avvicinati al cantautorato di Leonard Cohen.

Il quarto album, edito nel 1992, è questo “Black Eyed Man”, con un Michael Timmins che compie un lavoro di scrittura più personale, anche autoproducendo l’LP. Ci sono solamente due cover di Townes Van Zandt. Dalle ballate lente, nottiluche e desolate, passiamo a un suono più concreto, materiale e vivido, con un approccio strumentale più deciso. Country ballads, Blues e Folk, Dixeiland e Valzer, si fanno presenti tra la terra e il cielo, tra il bucolico e il mistico, scenari aperti sui protagonisti. Personaggi incarnati, veri e materiali in queste canzoni; non la vastità astratta delle idee o il tumulto delle emozioni. Ma personaggi. Gli uomini, le loro prigioni, la polvere dell’Oregon, la pioggia del Sud. E ancora Bobbie, Suzie, Marie, cavalli liberi nella prateria, donne sposate troppo giovani, Mrs. Annabelle assasinata a Trailer Park. I concetti non fanno storie o canzoni. La storia non è fatta di eventi, ma di relazioni, relazioni concrete tra persone.

Ogni dettaglio entra nell’opera. Il “Black Eyed Man” dovrebbe essere una sorta di liberatore ed invece è sospettato di “aver avvelenato l’acqua del pozzo”. Ma, suo malgrado, apprenderà che il punto d’arrivo è “giungere all’esperienza del mistero stesso”.

Il buon senso illuministico è insoddisfacente per gettar luce sul mondo. Anche i Cowboy sono interessati a ciò che è arduo, sfuggente, finanche incomprensibile. Guardano al passato, agli anni 30, per questo. Inseguono la loro “visione anagogica” che, nell’esegesi biblica, riguarda il legame segreto e la partecipazione dell’uomo alla vita di Dio, oltre il senso letterale, allegorico e morale delle Scritture.

Allora questi trovatori devoti al succo d’acero, come buoni storyteller parlano e cantano sempre del mondo intero. Ciò che l’artista crea proviene da un regno molto più vasto della sua mente, che, altrimenti, non avrebbe valore.

Il canto ineffabile di queste narrazioni, poi, è il loro suggestivo collante. L’interpretazione vocale di Margo è unica, sublime, sognante, voluttuosa ed eterea. Margo fonde sensualità ed innocenza, purezza e maturità, calore e freddezza.

Tra le canzoni, tutte di buonissimo livello, spiccano la conturbante “Townes Blues”, “This Street, That Man, This life” la loro canzone più bella, amara e dolcissima al contempo, con rintocchi di timpani estasianti, “To Live Is To Fly” superba rivisitazione da Van Zandt: «Vivere è volare, in basso e in alto, allora scrollati di dosso la polvere dalle ali ed il sonno dagli occhi».

Michael affermò: «Il disco ha un tema lirico preciso, che è quello dell’amore trovato, perso e tradito, il viaggio dell’uomo dall’occhio nero, un uomo perseguitato, senza volto, senza nome». Ricorda un personaggio della O’Connor, da “Parker’s Back”, “La schiena di Parker”. Un uomo del 1930/1940, un oppresso, un perdente, uno sconfitto cinicamente dalla vita, che si fece enigmaticamente tatuare la figura di un Cristo bizantino sulla schiena. Similmente, il “Black Eyed Man” appare quasi una figura messianica, tra le polverose strade dell’Alabama (Oregon Hill).

«Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l'emozione con l'emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore». Così il musicista, così i fratelli Timmins. Un viaggio nelle regioni oscure del cuore dove si attende redenzione, ma non mancano mai i segni della grazia. Redenzione, allora, come non dover essere “la nostra storia” soltanto.

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