Capitolo quarto, come recita il titolo. O almeno ufficialmente, in quanto considerando l’intera produzione discografica (dal doppio vinile semi-amatoriale “Fuse”, al mini LP d’esordio “Self-Non-Self” in poi compresa la raccolta di remixes) dovremmo trovarci di fronte alla sesta uscita discografica della band di Portsmouth. Dopo due album discussi criticamente (in modo ambivalente), quali “Forever” e “Loved”, che hanno nel bene e nel male segnato una evoluzione artistica del gruppo e affermato quest’ultimo presso il grande pubblico, “Population Four” segna una netta svolta stilistica e strumentale e richiede, a mio avviso, una riflessione retrospettiva.
Si può provare ad immaginare il dream pop dei Cocteau Twins, talvolta sferzato “da gelide folate di vento” (per citare una nota Scrittrice contemporanea), illuminato dai lontani bagliori della Berlino post-apocalittica degli Einsturzende Neubauten e ammantato dalle ruvidità techno-rock-campionate dei primi Young Gods. Questo fu l’esordio dei Cranes, una band che metteva in scena “uno spettrale universo di contrasti tra dissonanti suoni industriali e voci eteree”, scriveva Vittore Baroni.
Dopo la riedition in doppio CD di “Wings of Joy/Self-non-Self” nel 1993, il successivo “Forever” risentì in modo netto dell’incontro con Robert Smith, (la partecipazione al “Wish” tour proiettò il gruppo sullo scenario del rock/pop “alternativo” mondiale) e così “Loved”. Ciò che caratterizzava quelle musiche era una maggiore presenza di tastiere, un “dosaggio” sapiente di feedback e pianoforte, sonorità più ampie, ritmi più variegati, e alcune canzoni di buon livello come “And Ever” e “Sun And Sky”, cui fece seguito “Paris and Rome”, a significare la fascinazione romantica (in senso letterario) di Alison Shaw, il modello della “exploding track” (praticamente una specie di “Plainsong” attualizzata alle cadenze ritmiche del nuovo ibrido “dream pop mediterraneo” del gruppo), interesse autentico a quanto confermato dall’opera teatrale “La Tragedie d’Oreste Et d’Electre”.
Stilisticamente demarcato dai predecessori, si diceva, questo “Population Four”, appare un lavoro più “spartano” rispetto alla sontuosità strumentale e agli arrangiamenti dei predecessori: più secco, scarno e a suo modo essenziale, dall’incipit “Tangled Up” scandito solo da chitarra acustica e voce, al secondo brano “Fourteen”, che sembra racchiudere reminescenze lontane degli esordi, l’intero lavoro sembra incedere in modo ascendente creando l’attesa di un climax che non si materializza mai, o almeno così sembra… infatti poco dopo la metà del CD “Angel Bell” mette in scena archi e chitarre distorte in modo quasi “espressionistico”, e l’esplosione del drumming parossistico commisto a guitar-noise che rievoca vagamente “Starblood”, per giungere verso la conclusione a uno dei gioielli dell’album: “On Top Of The World” (la poetica sottesa al titolo è in continuità con “Wings Of Joy”). L’intero lavoro, da un lato consolida la mia (personale) opinione, che si tratti di un gruppo dal talento notevole e dalle potenzialità ancora parzialmente inespresse, dall’altro sembra avviare una transizione. Quella verso un sound e un genere sempre meno “codificabili” e “racchiusi”, che collocano i Cranes al di fuori dei confini della “geografia stilistica” di certo techno/rock/etereo britannico (Curve, Bleach, Slowdive…).
Potrebbe, forse realmente trattarsi anche di un superamento del passato… così vivido e (in fondo) rassicurante da offuscare (od “oscurare”) quello che, da una band situata a latitudini a noi più familiari in inglese viene affermato come uno slogan: “Look Into The Future”.
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