Una prima sentenza senza gradi di appello su questo gruppo l'ha espressa il lato brutto della vita: la morte. Il 20 gennaio 2006 Dave Lepard, cantante e chitarrista dei compatti Crashdiet, è stato trovato freddo nel suo appartamento di Stoccolma. Depressione e droga a go go. Una storia scritta come nell'insegna del locale della città degli angeli, dove "go go" esprime sinteticamente, evitandola, la parola eccesso, denominatore comune di tutte le espressioni di street, glam, sleaze. C'è chi è sopravvissuto a se stesso e chi invece ci ha lasciati in maniera triste, rispettando la cinica regola non scritta secondo cui, nella vita di un rocker, si deve mettere in conto una morte così. A ventisei anni. Mi viene da piangere, e un giorno lo farò sulla sua tomba.
Il modo peggiore per mettersi a scrivere una recensione è questo, ma ci provo ora perché so che sennò non ci riuscirei più.
Le band che hanno trasformato l'hard rock in una giungla d'asfalto sono durate poco e non hanno avuto una prole numerosa. Rigorosamente a macchia di leopardo, sono sbucate qua e là realtà che al massimo si sono aggiudicate lo scettro di promesse. Ma chi le ha mantenute mai? Nessuno. Si è fatto un gran parlare di formazioni come Quireboys, Hardcore Superstars, Bang Tango, Backyard Babies, ma in queste ho trovato sempre una crosta di apparenza che ha devitalizzato i miei sentimenti nei loro confronti. Look e suoni costruiti da designer e ingegneri che, nel tentativo di farli sembrare nati nel peggior pertugio degradato di L.A., sono invece riusciti a ottenere l'effetto contrario, di superstar dannatamente pop. Però.
Però.
Sei anni prima della morte, Dave Lepard riesce a mettere in piedi i Crashdiet, scioglierli e riformarli. Band nata con le promesse già mantenute. Voci dalla Svezia parlavano a me e ai miei amici in maniera incredibile degli show di questi nuovi sconsacratori di palchi. Performance da tipica atmosfera club street, concepite d'istinto lì per lì, ma sempre frullate sugli atteggiamenti folli e posaioli di Dave. Ricordo una frase di Hanna, amica di Goteborg vista di recente, estasiata fan, che me li definì così: "sono quello che i The 69 Eyes avrebbero voluto essere". Logicamente si riferiva al periodo sleaze dei finnici.
In realtà i Crashdiet si sono iniettati nell'apparato circolatorio dei fans perché hanno preso la loro identità non a caso. Come padri putativi hanno scelto gli Hanoi Rocks. Qui un improbabile glamster che non conoscesse i Crashdiet, comunque avrebbe capito tutto e mi farebbe cenno di smetterla. Perché stiamo parlando di una cosa seria, cazzo. Gli Hanoi Rocks, mica una band nata per farsi scimmiottare. Se hai quella dinamite dentro, sicuro non corri rischio di sbagliare il colpo e farti prendere per una revival hair metal band (che schifo, tra l'altro).
Un bel giorno del 2005, per tornare all'anno d'uscita di questo piccolo scrigno dei desideri, credo di esser stato il primo in Italia (non accetto smentite) a ricevere a casa il full-lenght d'esordio dei Crashdiet. Quando afferro l'onestà d'intenti di questi coraggiosi kidz e della loro proposta musicale, l'emozione che mi percorre è così sleaze che, come potete vedere, ne sto parlando al tempo presente. La scatolina che mi brilla nelle mani è così ben infarcita di tutti gli stilemi del caso che potrebbe sembrare una farsa. Cazzarola, questi scrivono "knock" con due k, ovvero "knokk", "ticket" al pari "tikket" e hanno titoli proprio glam. Sono in un malcelato visibilio quando, davanti a un cugino perplesso, mi avvinghio allo stereo e sgrano gli occhi. Parte "Knokk ‘Em Down", un fendente per nostalgici feriti come me, e sono subito ko. È il ritorno dello street. Il momento prima di ricevere il colpo hai giusto il tempo di capire che la mazzata è calibro Judas Priest. Quando ti riprendi, con gli uccellini che fanno cerchio intorno alla testa, ti sembra di aver visto pochi secondi prima gli Hanoi Rocks cantare come Axl Rose, suonare come i primi Motley Crue e fare cori come i Bon Jovi o gli Stryper. Ma, garantisco sui miei zebedei, nessuna copia di sorta, nessun rifacimento, nessuna imitazione bene o mal riuscita. I Crashdiet hanno la forza di 5 anni alle spalle e di uno stile di vita così carogna che sono una band che ti presenta prima il conto e poi un piatto molto migliore di quello che ti aspettavi. "Riot In Everyone", seconda trakk del lotto, è un assalto alla diligenza in stile Britny Fox con armi non convenzionali, condotto da uno che ha una voce così seducente che farebbe fermare i cavalli, mentre - scusate la ripetizione - Bon Jovi e Stryper canticchiando terminerebbero il lavoretto.
La voce di Dave sembra un catalogo Pantone. Ci sono tutti i timbri, tutte le sfumature dei grandi del rock condensate in una che di base è molto carnosa e voluminosa. "Queen Obscene" è il primo pezzo di carne dura, di primo taglio, ovvero migliore qualità, per poser con la spada di fuoco. La base ritmica di chitarra, sempre da parte del compianto Dave, ti sbatte - a dire il vero per tutto il disco - con la testa fuori dal finestrino in autostrada a 200 km/h. Gli assoli li trovi in corsia di sorpasso. "Breakin' The Chainz" sa di inno generazionale, scatarrato lì da un Dave che ti mostra pagina 107 del catalogo Pantone di cui prima. Si va di sleaze pesante con "Needle In Your Eye" che mi fa pensare in un primo momento a "Lay It Down" dei (in nome del padre, del figlio ecc.) Ratt. Una costante del disco è la produzione non eccessivamente pulita, che non fa sembrare l'album una novità a tutti i costi. In più, la forza della band sta nel chiudersi compatti a riccio come un gruppo di scudieri spartani da sfondamento. "Tikket", appunto, dimostra quanto dico, mostrando la pellaccia dura degli svedesi. Intanto vi butto lì anche Loudness e Scorpions. Li intravedi lontani ad applaudire questo lavoro che con "Out of Line" tocca le sei corde e l'anima, per darvi appigli, alla maniera dei Dalton o degli Hardline. Se avete una ragazza che non ascolta il genere, provate a farglielo azzannare con "It's A Miracle", che della tracklist è sicuramente la più donna, la confessione del primo amore street come facevano nei primi abbozzi di ballad sempre i Ratt.
"Straight Outta Hell" appartiene al mondo Motley Crue / Girlschool, mentre con "Back On Track" si potrebbe fare la prova del whiskey ad occhi chiusi: un intenditore direbbe che è del 1981. E invece.
E invece.
A pensarci mi viene da piangere sul serio. Poco dopo l'uscita dell'album, insieme a Dave Lepard se ne vanno all'altro mondo tutte le speranze di una, almeno e solo una, band che tenesse in vita noi che andiamo come fantasmi vintage a farci prendere per il culo per i capelli che portiamo, i jeans che indossiamo, i colori che "sgargiamo". Triste, come triste, di fondo, è sempre stato questo coloratissimo genere musicale che conosce la morte meglio di chiunque altro. Ricordatevelo.
Dear Dave, rest in sleaze.
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