Molto bene, procedo al rispolvero di quello che è uno degli ultimi capolavori del nostro amato metal ottantiano degno di potersi definire tale. Nello stesso anno in cui i Priest sfornano “Ram It Down” e in cui i Maiden chiudono in maniera perfetta una decade micidiale col loro ultimo, vero masterpiece “Seventh Son of a Seventh Son”, i Crimson Glory raggiungono il loro apice espressivo e qualitativo col loro secondo album in studio, “Transcendence” appunto. Il quintetto americano ci regala un disco che tecnicamente si presenta come un lavoro a dir poco seminale per quello che sarà poi il Progressive Metal, ma che globalmente rapisce l’ascoltatore soprattutto per le emozioni che sa regalare; grazie infatti alla perfetta amalgama fra il sound della sezione strumentale, raffinato ed evocativo ma al tempo stesso deciso, e l’ottima varietà delle tracce presenti, sia di testi che di soluzioni stilistiche, l’album si dimostra assolutamente degno di figurare fra i capolavori di punta del genere. Discorso a parte va fatto per la straordinaria ed a tratti inumana voce di John “Midnight” McDonald, carismatico (e compianto) frontman della band statunitense, il quale raggiunge vette, sia come espressività che come estensione vocale, che pochissimi altri cantanti hanno saputo eguagliare.
Nel disco, dicevamo, ciò che stupisce nella visione d’insieme è la varietà delle tracce. La opener “Lady of Winter” ci offre la degna introduzione a ciò che ci aspetta, con appena 4 minuti di puro power metal di stampo ottantiano, con un riffing essenziale ma estremamente evocativo. Seguono sulla falsariga della prima traccia la splendida “Masque of the Red Death”, con un Midnight ormai lanciato ed in piena forma, l’epica “Where Dragons Rule”, con un riffing dalla bellezza disarmante, e la terremotante “Red Sharks”, inno anti comunista dalla strofa a dir poco strascinante, senza contare il ritornello dal testo e dal riffing ancor più maligno ed un bridge ai limiti del Thrash, nel quale Midnight si esibisce in un terrificante acuto al grido di “Bloody red Sharks” che chiunque, fin dal primo ascolto, finirà col ricordare per parecchio tempo. A mio avviso, una delle canzoni da inserire in una ipotetica lista delle migliori e più rappresentative dell’Heavy/Power metal degli 80’s.
Con “In Dark Places” e “Burning Bridges” abbiamo invece gli episodi chiave della già citata seminalità prog presente nel disco, presentando non solo una durata superiore alla media, ma anche una serie di accorgimenti, come controtempi vari e sezioni strumentali più sofisticate. Qualitativamente si parla sempre di pezzi di ottima caratura, in cui il riffing dell’accoppiata Drenning/Jackson spiccano come al solito, senza contare la perenne venatura di inquietudine e malignità di Midnight a raccontarci l’aspetto più sofferente e introspettivo del lato umano con liriche davvero ispirate.
In “Lonely” e “Painted Skies” troviamo le due, splendide ballate del disco; mentre la prima si attesta su ritmi più carichi, esuberanti e a tratti rabbiosi, la seconda si orienta su binari più lenti e cupi, regalandoci quella che a conti fatti risulta una delle migliori canzoni dell’intero lotto (per il sottoscritto la migliore).
All’appello mancano solo due pezzi: il più potente dell’intero disco, ovvero la tanto spettacolare quanto devastante “Eternal World”, e la title-track “Transcendence”, in cui l’attenzione è completamente focalizzata sulle parole di Midnight, le quali coprono un emozionante tappeto sonoro di chitarre acustiche e tastiere, chiudendo in fade una traccia dalle fortissime tinte epiche e sognanti.
Non saprei davvero cos’altro aggiungere. "Transcendence" rimane probabilmente la vera perla nascosta della discografia Heavy/Power ottantiana, nonostante i Crimson Glory non siano più riusciti a riconfermarsi su tali livelli. Chiudo col solito, banalissimo consiglio d’ascolto a tutti gli appassionati del genere perché il disco in questione non è il solito lavoro caratterizzato unicamente da un “banale” insieme di riff al tritolo, ma deve la sua splendida riuscita ad una serie di elementi che, come suggerisce il titolo stesso dell’album, sembrano trascendere il genere stesso… e probabilmente è proprio in occasioni come queste, che si può parlare veramente di un capolavoro.
"It does not mean the end... it never really ends..."
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