I Crippled Black Phoenix non si fermano mai. Dopo il doppio mostruoso dello scorso anno e un tour che li ha di nuovo riportati in Italia, questo “I, Vigilante” fissa le nuove coordinate di una band che, oltre a quella di non fermarsi mai, ha anche la caratteristica di mutarsi continuamente restando fedele a se stessa. Del nutritissimo ‘supergruppo’ che nel 2006 pubblicò lo spettacolare “A Love Of Shared Disasters” sono rimasti solo in tre: le due anime (Justin Greaves, chitarra, e Joe Volk, voce) e la violoncellista Charlotte Nichols. I nuovi compagni di viaggio, dal napoletano trapiantato in Inghilterra Karl Demata (chitarra) all’ex roadie di Alice Cooper Chris Heilmann (basso), sembrano essersi inseriti in un organismo che ormai, più che ‘supergruppo’, è un gruppo vero e proprio. E coi controcosi.
Se c’è un fattore per cui “I, Vigilante” tradisce il passato della fenice zoppa è la mancanza di prolissità. Cinque pezzi, 45 minuti. Pezzi lunghissimi, certo. Alcuni anche troppo. Ma l’insieme non è ponderoso come i dischi precedenti. Paradossalmente, arginandosi, i Crippled Black Phoenix hanno guadagnato un respiro più ampio, e ne hanno approfittato per farsi più muscolosi. Di ‘endtime ballads’, tutto sommato, il disco ne contiene solo due, mentre gli altri pezzi giocano su registri più heavy, come la cover “Of A Lifetime” (dei Journey), rock adulto da vecchi pub della provincia americana nel complesso piuttosto muffoso. Un po’ incongrua, poi, l’altra cover nascosta a fine disco, dal sapore sixties bandistico e beatlesiano (si tratta di “Burning Bridges” dei The Mike Curb Conregation, dalla colonna sonora de “I Colonnelli”, 1970, con Clint Eastwood).
Più ruvida di echi pinkfloydiani “Troublemaker”, più sfilacciata “We Forgotten Who We Are”, che procede come un’altalena tra dolcissime tregue e impennate tipicamente post-rock, con strati di chitarre più massicci rispetto al passato (i cori ‘angelicati’ a fine pezzo, però, nun se possono sentì).
Poco da fare, però. A me i Crippled continuano a piacere di più quando si inoltrano nei territori solo loro, tra folk brumoso ed elegie da fine del mondo. “Fantastic Justice” (piano, violoncello, batteria a marcetta) esalta nel ritornello quasi sinfonico, con un Volk che è cresciuto come vocalist e ha imparato a variare i propri registri, passando da toni introversi a tirate grungettone con grande stile. Il prezzo del biglietto, però, lo vale da sola “Bastogne Blues”, o: dodici minuti di dio. Pezzo di guerra (celebra un episodio del secondo conflitto mondiale, con una prefazione-racconto di due minuti in cui la voce di un reduce narra della drammatica uccisione di un nemico), è soprattutto un pezzo di resa. Sospeso in un folk seppia, da epica strascicata e sconfitta, il brano è cullato prima da un Volk a occhi chiusi e poi da un corteo di archi lunghi da qui all’orizzonte; il motivo melodico, tirato all’infinito, fino ai brividi, come uno sgomento (un troppo emotivo) da cui non ci si può liberare, è uno degli apici dei Crippled Black Phoenix, con un sapore di legno e di terra che resta nell’aria e impregna tutto. Spettacolo.
E visto che i Crippled Black Phoenix non si fermano mai, in primavera arriverà il disco nuovo. Far durare questo fino ad allora sarà un piacere.
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