Ho un'alta considerazione del punk, più da un punto di vista concettuale che pratico, a dire il vero. Perché se non posso certo affermare di apprezzarne più di tanto le singole band e le relative proposte, mi è impossibile non riconoscere al genere un fondamentale valore di rottura (stilistica più che culturale) in una certa fase della musica popolare moderna.

Non sono certo qui a celebrare i due accordi che hanno spazzato via i barocchismi degli Yes (e chissà perché ce l'hanno tutti proprio con gli Yes!), ma sarebbe ingiusto affermare che la musica  sarebbe stata la stessa senza l'avvento del punk e il seme che esso vi ha lasciato, anche solo a livello di contaminazione.

L'inutile preambolo è per sottolineare la mia difficoltà nel riconoscere il valore intrinseco (perché quello storico, si sa, non c'è) di una band che viene rammentata solo perché vi militavano Douglas Pearce e Tony Wakeford: sì, i Crisis sono la prima band dei fondatori dei Death in June, due personaggi che da soli riusciranno, non solo a dare i natali, ma a conferire almeno il 60% del senso ad un genere intero, il folk apocalittico (Pearce con gli stessi Death in June, Wakeford con i suoi Sol Invictus).

Ma questa è un'altra storia. Facciamo piuttosto un salto indietro e piombiamo nel '77: sull'onda di un movimento prossimo a dilagare, probabilmente anche un po' in ritardo nei tempi si formano i Crisis, dediti ad un canonico punk che più britannico non si può. L'avventura durerà poco, nemmeno quattro anni. Nell''80 i Crisis saranno cenere, e il loro concerto di Guildford del 10 maggio 1980 (di recente riesumato ed uscito con il nome "Ends!") è la loro ultima comparsata su questa terra.

I Crisis, seppur non imprescindibili, non fanno tuttavia cattiva musica (ammetto comunque di avere difficoltà nel cogliere la differenza fra chi valeva o meno in quegli anni): non inventano niente i Crisis, ma confezionano un punk genuino e di piacevole ascolto.

Altra notiziona: i Crisis erano di estrema sinistra, aderivano alla Anti-Nazi League (un'organizzazione del Socialist Workers Party, di cui era membro Wakeford stesso) e intendevano rappresentare il volto violento della guerriglia del Socialismo Rivoluzionario! Strano, se si pensa che i Death in June verranno poi tacciati di destrofilia.*

"Holocaust Hymns", uscito nel 2005 per volere dello stesso Douglas Pearce (più per far cassa, che per una reale affezione al progetto), raccoglie tutto, ma proprio tutto ciò che hanno combinato i Crisis nella loro breve storia: un solo cd (poco più di settanta minuti) per ripercorrere la nascita stentata e il precoce sopirsi di una realtà destinata a morire senza lasciare il segno. Tre singoli, un mini LP ed un demo del '77, ecco quello che ci hanno lasciato i Crisis, punk band di retroguardia destinata a bruciarsi nel tempo di una stagione, in virtù della cocente contraddizione artistica da essi incarnata: quella di assumere salde posizioni anti-sistema, incarnando al contempo una forma di protesta non più rivoluzionaria. E non a caso, archiviata l'esperienza Crisis, Pearce e Wakeford decideranno coerentemente di intraprendere per vie più coraggiose la loro crociata contro il mondo.

Ma questa, si diceva, è un'altra storia. Concentriamoci piuttosto su queste ventitre schegge sonore (nella raccolta sono contemplate anche versioni alternative e registrazioni dal vivo), che davvero, ma per davvero, non richiamano nemmeno lontanamente l'arte che sarà della Morte in Giugno, nonostante tutti i pezzi (ad eccezione di uno) siano farina della coppia Pearce/Wakeford.

Niente di niente, tutto è squisitamente punk old-school, salvo si sia in vena di dietrologie e si voglia rinvenire nel rallentamento delle ritmiche e nei cori alienanti delle composizioni più tarde (quelle del mini "Hymns of Faith", del 1980), le ossessioni che poi caratterizzeranno i primi album dei Death in June. Ma si fa davvero fatica a cogliere, fra i solchi di un robusto e sguaiato punk, i segni di quello che poi verrà.

Anche perché Pearce e Wakeford si limitano a fare quello che un buon chitarrista ed un buon bassista farebbero in qualsiasi altra band punk di dilettanti, mentre le voci di Phrazer e Dexter (i due cantanti che si avvicenderanno nel corso degli anni) rammentano senza tanti fronzoli l'ugola sgraziata di un Johnny Rotten qualsiasi.

I primi quindici pezzi (quelli dei singoli e del mini) hanno ancora una produzione dignitosa, scorrono piacevolmente, brevi abbastanza per non annoiare, anthemici il giusto per riscaldare gli animi, far muovere il piedino ed invitare a qualche vocalizzo di accompagnamento. Da segnalare l'incalzante opener "Holocaust" (probabilmente il brano migliore, nonché il più noto), forte di un giro di chitarra azzeccato ed un testo che va ad anticipare (vagamente) i temi poi meglio esplicati in seno alla Morte in Giugno.

Titoli come "Red Brigades", "Kanada Commando" e "Back in the USSR" non hanno certo bisogno di presentazioni e rappresentano gli esempi più vividi dell'impostazione ideologica della band. Le due chitarre (oltre a Pearce non bisogna dimenticare l'altra ascia dei Crisis, Lester Jones) si fondono efficacemente, la ritmica trascinante, la solista fantasiosa. Dietro alle pelli, prima The Cleaner, poi Luke Rendall, si destreggiano dignitosamente, conferendo la giusta energia e il giusto dinamismo (svariati gli stop and go) a dei brani che brillano comunque di una varietà melodica degna di nota (su tutti l'alienante "Frustration", il brano più composito).

La qualità sonora va purtroppo deteriorandosi dalla sedicesima traccia in poi, mano a mano che si va a spolverare il passato remoto della band (si pensi ai pezzi del demo) e a saggiare le prodezze dal vivo dei Nostri, tutto sommato decenti anche sul palcoscenico.

E si ritorna quindi alla questione iniziale, se questi Crisis abbiano un valore intrinseco o debbano essere solo visti come le curiose origini di un'entità artistica che, ponendosi addirittura in posizione antitetica alle medesime, porterà alla genesi di una nuova ed importante corrente del panorama post-punk.

La verità è che i Crisis sono, alla fine della fiera, una band non fondamentale, ma onesta, giustamente dimenticata ma nemmeno da biasimare e vituperare; e che questo "Holocaust Hymns" potrà fare la gioia di chiunque ami il punk più diretto e belligerante senza pretendere troppo.


Alla larga, invece, se ne stiano i folkettari apocalittici!


 

* Inutile postilla: più ci penso e più mi convinco che considerare i Death in June di destra sia sbagliato, o per lo meno riduttivo. L'altra sera mi son visto "La caduta degli Dei" di Visconti, ed un altro tassello nella comprensione della psiche complessa di Douglas P. mi si è palesato: non è stato un caso infatti che durante la scena che ritrae la strage della notte dei lunghi coltelli (evento da cui prende nome la band) le SA, baldi giovini omosessuali colti in allegra e carnale baldoria, intonino proprio un canto militare presente nell'album simbolo "Brown Book". Vedendo un film come questo (un film morboso, imperniato sul disfacimento delle cose, contro il nazismo, ma che al contempo non lo priva del romanticismo e dell'eroismo che coprono la componente gretta e piccolo-borghese che il fenomeno ha in realtà incarnato), un film girato da un omosessuale e pregno di estetica omossessuale, fa indubbiamente capire molte cose della musica dei Death in June, oltre i facili giudizi che possiamo dare a parole. Vedere per credere.

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