Più che di un critico, qui ci vuole uno psicologo, o un esorcista.
Prendo questo disco un po’ a caso, come rappresentante significativo di un problema: le musiche dei cartoni animati degli anni ’80.
Sono ormai quasi dieci anni che le mie orecchie e i miei neuroni vengono ammorbati da codeste repellenti musichette. Metà dei gruppi che tirano su quattrini qui in Toscana coverizzano giulivi le orride canzoncine che accompagnarono i cartoni animati più gettonati dell’epoca.
Jeeg Robot, L’uomo tigre, Goldrake, Lupin sono diventati una specie di passepartout emozionale: se ne parla a casa con gli amici, nei pub e nei locali di tutta la regione. Vuoi rompere il ghiaccio in una serata in cui non conosci quasi nessuno? Porta la conversazione su Gundam o Mazinga Z: funziona. Cazzo se funziona. Perfetti sconosciuti buttano giù di colpo ogni diffidenza e ti riconoscono compagna di partito… il partito più insulso e frequentato del mondo: quello dei fanatici dei cartoni animati anni ’80.

Ho sentito trentenni dissertare per ore sui doppi significati del testo di Pollon, quarantenni commossi alla rievocazioni delle gesta della regina Imica e dei suoi tre ministri Amaso, Mimashi e Osama Bin Laden. Ops. Mi sa che mi sono confusa…
Questa non è una recensione, è una petizione rivolta a tutti i trenta/quarantenni: basta.
Ci stiamo rendendo ridicoli.

Capisco che in tempi confusi, tra un crollo di certezze e l’altro, sia molto confortante riconoscersi tutti insieme almeno in una canzoncina di quando eravamo piccoli, ma a tutto c’è un limite.
Il culto dei cartoni degli anni ottanta è un male subdolo, da estirpare.
Avreste preso sul serio vostro padre se avesse passato anni a ricordare il suo cavallo a dondolo o i suoi soldatini di stagno? Non credo. Come pretendete, bambinoni, di essere rispettati dalle nuove generazioni se vi fate beccare in flagrante lacrimuccia ascoltando Heidi?
Ripeto: non è una recensione, è una petizione. Forse è addirittura una preghiera: basta.
Basta vivere in questo eterno ritorno.
Basta ridere complici ricordandoci bambini.
Basta spacciare feccia per poesia, solo perché mancano poesie migliori.
Deve arrivare un momento in cui non siamo bambini, non siamo vecchi ma siamo solamente, semplicemente persone. Stiamo attenti: chi si affolla sotto i palchi di queste tristi cover band ha un problema da risolvere: diventare adulto senza sentirsi vecchio.

Per paura di invecchiare inseguiamo feticci batuffolosi del tempo che fu e rischiamo di dimenticare le vere magie dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’età adulta.
Basta con gli anni ‘80, basta con questo eterno ritorno, basta con questa sottospecie di ritorno nell’utero materno che è la nostalgia del tempo andato.
Tra l’altro, i nostri avi hanno avuto in sorte Gianni Rodari, Astrid Lindgren, Saint-Exupery.
A noi è toccata Cristina D’Avena e, per i più grandicelli, Drive In.
Non vedo cosa ci sia da vantarsi: sarebbe meglio un dignitoso silenzio.

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