Ogni tanto la sera mi piace sedermi a scrivere. L'immaginazione lascia tracce della sua esistenza disegnando paesaggi ed impressioni da tradurre in parole.
A volte è già lì, a volte è un po' più nascosto. E' qualcosa che mi ha colpito chissà quando, magari al lavoro, o nelle sfumature più remote della giornata trascorsa. E' un groviglio di dettagli che premono per uscire, per manifestare al mondo il loro messaggio segreto e legittimarsi alla possibilità di una trasmissione. In queste occasioni c'è sempre un sottofondo musicale. La musica è importante per scrivere: mi aiuta a mettere meglio a fuoco quei dettagli di cui sopra per ripulirli dai disturbi esterni. Alcune sonorità sono veramente capaci di trascinare nei meandri del proprio essere creativo.
E' il caso di questi misteriosi Critters Buggin, che da qualche tempo, giunti chissà come, frequentano le mie playlist notturne. La loro musica è una forma di avantgarde-post rock dai toni jazzati e fortemente elettronici. L'album che vi propongo (l'unico che ho di loro, fin adesso) si chiama "Stampede" (Arrembaggio) e risale al 2004. E' una sequenza di strumentali accomunati da un mix intrigante di suoni soffusi e ritmiche ipnotiche. Personalmente mi ha catturato da subito, e non succede spesso con artisti alternativi.
Quello che si trova nell'album è abbastanza variegato: si parte con l'elettronica spinta di "Hojo", ottimo starter, e si prosegue con le melodie giapponesi di "Panang". "Cloudburst" è una passeggiata su nubi di melodie incantate, e "Toad Garden" riprende echi trip hop da quel di Bristol.
Il pezzo chiave del disco si intitola "Persophone Under Mars"; comincia con dissonanze di pianoforte che accompagnerebbero volentieri i titoli di testa di un film horror. Dopo poco subentra una jungle jazz da panico, e la tensione sale fino ad esplodere in un ritornello di archi sintetizzati che deviano attraverso atmosfere retrò.
Ma c'è spazio anche per il rock (questi vengono da Seattle in fondo, e a quanto pare l'omino che suona il synth in alcune tracce conosce molto bene i Pearl Jam, ndr) basta ascoltare la furia distorta e caricaturale di "Punk Rock Guilt".
Unico neo del disco è la conclusiva "Open the Door of Peace". Cacofonica e etnica in una accezione fastidiosa (e banale già dal titolo, è l'unica traccia che skippo). Ma in fondo, poco male; scrivere di suggestioni orientali non mi ha mai preso.
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