Una delle copertine fra le più banali e sciatte che si possano immaginare, una confusa e male inquadrata foto di una vetrina di negozio di strumenti musicali con tanto di fastidiosi riflessi sul vetro e sui bonghi in primo piano, racchiude a contrasto l'intrigante e lucido approccio alla musica rock e blues di questo quartetto della Carolina del Nord, purtroppo qui alla seconda ed ultima prova discografica (siamo nel 1997) prima di disperdersi definitivamente.
Artefice primario della qualità di quest'album, come del resto del precedente e ancor migliore "Brother", è il leader del gruppo il chitarrista Audley Freed, un musicista che personalmente tengo in altissima considerazione e includo senz'altro nella mia Top Forty dello strumento. Freed non è molto conosciuto, neppure la sua breve stagione in forza ai Black Crowes (suona sull'album "Lions" e in quello dal vivo con Jimmy Page) è servita più di tanto, ciononostante rimango puntualmente stregato ogni volta che ascolto il suo tocco superbo, la sicurezza e chiarezza di idee con cui maneggia la Fender Stratocaster tirandone fuori il lato migliore come resa di suono, efficacia ritmica, espressività, pulizia.
Jimi Hendrix è stato senz'altro il suo punto di partenza stilistico, ma come tecnica e precisione (asserviti a feeling e "tiro" dei pezzi, com'è corretto che sia) siamo al top assoluto, ad una dimensione di eccellenza certo non paragonabile in quanto a pionierismo e visionarietà al genio ispiratore di Seattle, ma comunque ampiamente fuori dal comune. Freed è uno di quegli esecutori che pare avere tutto il tempo per cesellare ogni nota che prende, pure quando decide di snocciolarle ad altissima velocità, dando ad ognuna di esse una sfumatura, una voce, un perché. Un piacere fisico ascoltarlo, perché possiede la virtù sublime del tempo, della scelta di note, del tocco. Del resto cospicua parte del suo impegno lavorativo è devoluto in affollati clinic dimostrativi, come capita solo ai grandi maestri contemporanei della chitarra rock dalla inebriante abilità e conoscenza strumentale (Steve Morse, Guthrie Govan, Steve Vai...).
Tutta questa virtuosità chitarristica è asservita, in questi Cry Of Love, ad un rock blues episodicamente tendente al southern ma comunque sempre asciutto ed essenziale, molto diretto e povero di sovrastrutture, che superficialmente sembrerebbe di maniera ma le cui progressioni di accordi ed aperture melodiche non sono affatto tali. Certo son cose apprezzabili in toto da chi si diletta a seguire la musica facendo attenzione ai particolari, e non giova molto alla causa la performance del cantante... In questo disco al microfono evoluisce tale Robert Mason, buon mestierante con all'attivo dischi assai più caciaroni con i Lynch Mob e attualmente con i Warrant: è un vocalist dotato, ma un po' freddo e didascalico... funzionava meglio il cantante precedente, quello del disco d'esordio il povero Kelly Holland (recentemente scomparso). Già che ci siamo, un'altra buona carriera fra i musicisti in seno a questo gruppo l'ha realizzata il bassista Robert Kearns, finito per qualche tempo nei Lynyrd Skynyrd subito dopo quest'esperienza ed attualmente nella band di Sheryl Crow.
La magia che sgorga dalle dita del riccioluto Audley può essere ben recepita su quest'album soffermandosi sulla seconda traccia "Hung Out To Dry", una blues ballad gonfiata dall'Hammond (chissà chi lo suona) e poi sulla quarta "Fire In The Dry Grass", un rock sincopato vagamente in stile Ac-Dc anche se più tortuoso ed elegante, aperto da un intro di blues arcaico alla Robert Johnson. Su "Georgia Pine" e anche su "Sunday Morning Flood" invece sembra di essere in un album di Robin Trower: c'è quel suono mirabilmente hendrixiano estratto dal pickup centrale della Fender e fatto passare attraverso tremolo e chorus... Peccato per la voce starnazzante e sleazy di Mason, qui ci sarebbe proprio voluto il grande e compianto James Dewar (il fu bassista di Trower, rigogliosa ugola blues).
Ultima segnalazione in chiusura per la finale "Garden Of Memories", altra ballata blues strascicata alla sudista e con un riff magico, a tutto merito della maestria di Freed col pedale wah wah: come una singola nota, col giusto eco e la giusta produzione e presa col giusto cuore, può nobilitare tutto un pezzo.
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