Tra le perle nascoste dei grandissimi anni Novanta appena trascorsi è da collocarsi con pieno merito "China Gate", il terzo album dei bostoniani Cul De sac, autentici guru della nuova scena sperimentale di stampo prog.
La loro musica è eleganza, sobrietà e ricerca, arricchita da un certo qual gusto esotico che ne ricorda i giapponesi Ghost, altrettanto mitici compositori del genere. Le loro composizioni sono quadretti floreali, autentici "haiku" in musica che sembrano sospesi nel vuoto più mistico, spruzzati di tanto in tanto di un sontuoso chitarrismo che risente dell'estetica floydiana.
Pink Floyd, progressive, orientalismo e orientalismi di sorta, elettronica sperimentale alla Brian Eno, dunque. Sono queste le coordinate chiarificatrici del loro sound, e "China Gate", loro terza fatica, edita nel 1996, ne è, almeno a parere di chi scrive, l'espressione più esemplare.
Si parte con un coro quasi gregoriano in cui voci di monaci zen rimarcano il titolo "China Gate", poi a questo coro singolare si sovrappongono alcune voci sommesse che sembrano prese direttamente dallo studio di registrazione. Infine, finalmente, parte la musica: "Sakhalin" è un ouverture che parte sommessa ma pian piano si eleva ad una perfezione sempre maggiore, fino ad arrivare ad un culmine di trascendenza ottimamente espresso da un virtuosismo chitarristico che aspira all'infinito. Il free-jazz di "Nepenthe" dura la bellezza di dieci minuti, con il basso che funge da cupo elemento disturbatore della litania intonata dalla chitarra. Ben presto è il basso stesso a diventare il protagonista della scena e a portare avanti il motivo principale, menre sullo sfondo si librano serpenti fumosi da musica lounge. E' una perla che da sola varrebbe l'acquisto dell'opera.
Ma i capolavori non si fermano di certo qui: "Doldrums" è una melodia accattivante e frenetica costruita su un drone orientaleggiante e su improvvisazioni free-form di carattere noise. Si torna al jazz e al gusto retrò con "James Colburn", scandita dal battito funereo del basso, e che potrebbe stare benissimo su uno degli ultimi album dei Pink Floyd. "Virgin Among Cannibals" invece è un'ipotetica colonna sonora per manicomi lungo tutta la prima parte, finche le dissonanze non sfrecciano lungo un'orgia tribale inconcludente. Uno dei brani più enigmatici di sempre.
"Hemispheric Events Command" è l'ennesima prova del loro immenso talento nel costruire melodie accattivanti anche nella più completa destrutturazione cubista: i frequenti jingle-jangle di chitarra sono contornati da un basso metafisico che si mette ad intonare la più celestiale delle melodie, prima di sfociare in un altro distorto muro del suono. "The Colomber" è una sorta di mantra apocalittico che muta in una jam alla Montgomery ricca di droni e di dissonanze. L'insieme, anche se caotico, è comunque compatto ed entusiasmante, e velato di un certo easy-listening che ne fa un pezzo in ogn caso accessibile.
Si chiude con l'ultimo "masterpiece": il finale di "Utolpia" è da antologia del rock; è semplicemente meraviglioso. L'estetica tropicale torna a farsi sentire, caratterizzata dal solito crescendo che connota la musica di questo gruppo fantastico. I Cul De Sac ci hanno regalato, con questo disco, un'opera luccicante nell'olimpo dei dimenticati.
Fantastico esempio di neo-prog, "China Gate" va annoverato come uno dei dieci dischi più belli del decennio di "Emotional Plague" e "Harsh 70's Reality". E' un disco da avere e da conservare gelosamente.
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