Los Angeles stanotte è stata destrutturata. Spogliata di ogni inerme costruzione e poi pian, piano riassemblata dagli artefici della stessa onda distruttrice. Una rovente serata che inizia intorno alle 19:00 quando sul Roxy Theatre di West Hollywood salgono sul palco i SubRosa, formazione dello Utah che con i suoi flebili sussurri di voci femminili riescono a connotare spettralmente l'incipt di una nottata che diventerà un tortuoso e perpetuo trip atmosferico. I violini salgono più volte alla ribalta nel magma viscoso di riff dal sapore doom che rallentano e rendono l'aria rarefatta. La risposta del pubblico è più che positiva, addirittura la mia amica mi rivela di esser lì proprio per loro. Le melodie sono più volte macchiate da una voce che si trasforma lentamente da soffusa a vigorosa, decisa ad imbrigliare le rovinose macerie che man, mano si creano a causa dell'incessante martellare della batteria. I SubRosa son un tramonto che al calare regala spazio al cielo stellato, ma non son ancora capaci di liberare l'apocalittico scenario che da lì a poco si sarebbe scaraventato con un impeto fuori controllo. Non c'è neanche il tempo di due chiacchiere e di parlare del prossimo live di Chelsea Wolfe che il vortice iracondo di sludge e post metal si sta per abbattere di nuovo su di noi. Come una tempesta acida che cade copiosamente da un cielo densissimo arrivano i Minsk. La forza dell'urto provocato è immensa. Quei bagliori di scenari crepuscolari e folk dei SubRosa vengono spazzati via letteralmente da un wall of sound che fagogita senza distinzioni prima il growl annichilente e poi ingloba nel suo ventre le suite strumentali. Un alternarsi d'arpeggi che aprono a liquidi e dilatati scenari e a cambi di rotta in cui ci si può perdere in un millisecondo, vista l'imprevidibilità folle. Quando i Minsk imboccano la via più terremotante il sound si impregna di ferocia e furia cieca. Si creano delle vere e proprie cavalcate che non concedono seconde chance, lasciando impietriti ed esterefatti chi ancora si cullava nella malinconia dei SubRosa. Il liet motiv della serata è stato innestato. Se i SubRosa avevano forgiato uno scorcio drammatico, ma carico di pathos, i Minsk prendono quell'emozionalità decomponendola in spazi al servizio del più viscerale post metal. Quando la loro performance finisce, non c'è più alcun paesaggio rincuorante. C'è solo della polvere sulla quale si dovranno ergere come dei monoliti i protagonisti della serata: i Cult of Luna. Ora, è stato bello raccontarvi questo concerto, ma finisce qua, perché quello che seguirà nella quasi ora e mezza di performance è indescrivibile, però, insomma, arrivati fino a questo punto è dovere svelarvi tutto.
Il Roxy viene immerso completamente nel buio quando i Cult of Luna fanno il loro ingresso sul palco. Non c'è alcuna luce. Non c'è nessun segno di vita. Solo l'oscurità che avvolge i piccoli led lampeggianti della strumentazione. L'hype, anche fra il pubblico, è altissimo. La sensazione che si ha è quella di entrare in un cinema surreale, dove il gruppo svedese dirige con parsimonia tutto l'arco narrativo. In quanto sì, vedere un concerto dei ragazzi di Umea, è un'esperienza totalizzante, come se si fosse imbambolati davanti a un cantastorie distopico. Una lieve foschia immerge il palco in un'atmosfera desolata ed è lì, in mezzo alla coltre di nebbia artificiale, che si scorge l'imponenza di Johannes Persson, il deus ex machina, che si fa carico di raccontare la storia dei Cult of Luna. Le luci fredde e glaciali, con dei laser che, impazziti, si contorcono su se stessi come se fossero al cospetto di un allarme, fanno da anteprima al rieccheggiare di "Light Chaser" che può esser considerata l'introduzione al primo capitolo di Vertikal. Il synth psichedelico fa cadere il pubblico nel mondo di Metropolis e Fritz Lang. Si è trasportati in tuttaltra dimensione e Persson si scaglia con il suo growl profondo contro la marzialità dell'incidere del drum set. O meglio, dei drum set, in quanto i Cult of Luna si presentano con la doppia batteria (batterista/percussionista) tanto per sottolineare ed evidenziare che le tre chitarre non sono sufficienti a far capitolare Los Angeles. C'è bisogno di innesti che con un sincronismo robotico possano far deflagrare le narrazioni musicali dei Cult of Luna. L'arma è pronta all'assalto, le melodie sono avvelenate e scavano nei meandri più utopici di un mondo meccanizzato. È "I: The Weapon" a rivelare il volto della doppia anima degli svedesi, così metodici e affilati nel penetrare dentro la morbida carne con i riff lancinanti con cui con orrore e disparità sociale si costruisce la città di Metropolis. I Cult of Luna sono degli scienziati del post metal, completamente consci delle proprio capacità e il livello di trasporto durante le escalation fragorose o le architetture spigolosamente ariose sono totali. Persson ha radici hardcore punk e si vede, scollinando più volte oltre gli amplificatori ed ergendosi insieme alla sua Gibson. Nel mentre, dietro di lui, si scatena l'allucinata visione di un universo fatto di viaggi mentali che imperversano attraverso i dialoghi fra le due batterie. Una fusione pronta a far combaciare ogni istante delle lunghissime suite made in Cult of Luna. È un continuo rincorrersi fra ombre, luoghi oscuri e paesaggi in cui l'umanità rimane paralizzata cadendo sotto gli echi di lontane e struggenti melodie. Paralizzati rimangono pure loro sul finale di "Ghost Trail" quando il flusso sonoro s'interrompe fulmineamente. Le luci si spengono e Johannes tuona con tutta la forza in corpo: "The King". L'arrivo del Re è imminente. La slavina di riff ossessivi viene scaricata in modo abrasivo e le batterie si sfidano accellerando verso un'ecatombe di cui tutti noi siamo testimoni. Immaginatevi la potenza sonora dei Cult of Luna su disco, dal vivo la triplicano. I boati d'estasi sono ovvi e meritati.
Le percezioni irreali prendono corpo e sostanza. Si chiudono gli occhi e si rimane assorbiti dal ghetto di Metropolis. Silentemente iniziano a crearsi i riverberi di "Vicarious Redemption" che, con l'aiuto dell'e-bow, amplifica la sua metallica sinuosità. Fragili rintocchi ed echi distorti di sintetizzatori che risuonano da un lato all'altro del Roxy fanno sì che si dipinga una materializzazione di mondi che collidono, sotto l'instancabile peso dei macchinari e dei cigolii che stritolano una società compromessa. Un vento artico apre alle strutture elegantemente concepite dalla mente degli svedesi. Johannes è nelle vesti di un profeta che è tanto raffinato nel rilasciare riff, dialogando con Kihlberg e Olofsson, quanto vorace e senza pietà nel sentenziare il cuore più ruvido che traspare nelle ritmiche spinose di una "Eternal Kingdom". Il dettaglio che mi ha fatto amare i Cult of Luna anni fa è la capacità di sapersi prendere i propri tempi, non velocizzando nulla. Nelle loro composizioni c'è il giusto equilibrio e tutto viene dosato con certosina pazienza. Tutto viene dispiegato con una fluidità d'esecuzione che non conosce interruzioni, tant'è non vi è nessuna interazione con il pubblico. È un continuum di memorie che scompaiono e paesaggi caleodospici che vengono filtrati e rigenerati con delle vesti evocative che fanno sprofondare nei luoghi più impervi delle proprie sinapsi. È a questo che serve la cerebralità di una "Dark City, Dead Man".
Le dissonanze cacofoniche di "Disharmonia" suggelano l'ultimo lascito che i Cult of Luna vogliono confezionare per la California. Un ultimo viaggio lungo i grattacieli che s'arrampicano senza pietà e un onirico magnetismo che possa circondare per l'ultima volta il Roxy Theatre prima che gli svedesi scompaiano in un vuoto cosmico. È proprio il turno di "In Awe Of" che con le sue parole sintetizza meglio di quanto io possa fare su cosa voglia dire aver assistito a un live dei Cult of Luna: "On my knees, mesmerized; In awe of. Solarised. Acceptance before I return to the stars." Le armonie eteree si spezzano e i saliscendi vertiginosi giungono alla loro conclusione, con una dimensione introspettiva che ha regalato più di una volta sguardi incantati e ipnotizzati verso questi sette svedesi che sono riusciti a riportare in vita Fritz Lang e tutte le altre storie che da "Somewhere Along the Highway" e "Eternal Kingdom" hanno consacrato i Cult of Luna come una delle realtà inossidabili e indiscutibili della scena post metal. Chapeau.
SETLIST:
- Light Chaser
- Ghost Trail
- I: The Weapon
- Vicarious Redemption
- Eternal Kingdom
- Dark City, Dead Man
- Disharmonia
- In Awe Of
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