Il 2013 parte bene (da un punto di vista discografico, intendo, per il resto direi di no): nell'arco di soli due mesi (i più duri dell'anno, sempre discograficamente parlando) il novello duemilatredici è già stato testimone di diverse uscite interessanti, fra cui è da annoverare senz'altro questo ultimo lavoro dei Cult of Luna, un brand che oramai è garanzia di qualità. La band svedese non ha certo bisogno di presentazioni e “Vertikal” è senza ombra di dubbio la conferma (l'ennesima) del valore di una formazione che può vantare lo status di realtà di maggior peso specifico in ambito post-hardcore. Cento spanne sotto i Neurosis, un paio sotto gli Isis, ora che i primi iniziano per fisiologici motivi di natura anagrafica a discendere la china della loro irripetibile parabola artistica, mentre i secondi non esistono più da diversi anni, i Cult of Luna, ora lo possiamo dire, sono quelli che lo fanno meglio, e non è un caso che se dovete pensare a cosa sia il post-hardocore, il nome di questa band sarà fra i primi tre (suvvia quattro) che vi si poseranno sulla punta della lingua.
Non è bastato loro partorire quello che rimarrà negli annali come un indiscusso classico del genere (“The Beyond”, del 2003): la loro carriera inanella l'ennesimo capolavoro (il quarto per lo meno), parto di mente e cuore, ma anche il frutto meritato di una consolidata professionalità e di una raffinata ricerca stilistica. Il collettivo di Umea (ben sette i musicisti coinvolti) confeziona quello che ad oggi, nel 2013, è probabilmente il “miglior metallo possibile”, come era successo in passato con gli Opeth, come era accaduto poi con i colleghi Isis e successivamente con gli Agalloch, in anni in cui assurgere al ruolo di protagonisti costa le fatidiche sette camicie.
Perché è bello “Vertikal”: perché non è il "solito" post-hardcore slabbrato, sudista (azzerate le influenze southern esplorate nei lavori precedenti, e giustamente aggiungerei, dato che il deserto poco c'azzecca con la Svezia) e tirato per le lunghe. Qui c'è tutta la classe, la vocazione alla causa e l'impegno di chi la storia del genere l'ha fatta e decide di andare avanti, crescere come musicista e continuare a costruire (non distruggere), edificando i consueti scenari attraverso la complessità del fare musica, e non solo far leva sull'attitudine, sulla rabbia, sulle distorsioni a palla e su lungaggini fatte di retorica psichedelica. E se non sono stati certo i primi, di certo oggi sono i migliori. “Vertikal” è quindi anche post-rock, post-metal e tutto quello che volette mettere dopo la parola post. Composizioni lunghissime, attitudine progressiva, compattezza strumentale, compostezza stilistica, una veste modernistica/futuristica venata da un'elettronica essenziale e mai preponderante, voglia di piacere, certo, ma anche l'umiltà di voler suonare pragmatici, concreti, in un parola metal, se per metal (ma oggi questi sono i classici) possiamo menzionare formazioni come Katatonia e Meshuggah: l'invincibile decadenza delle struggenti stratificazioni melodiche dei primi, la claustrofobia asfissiante delle aritmetiche architetture dei secondi.
Anche questo è “Vertikal”, che si ispira non solo nelle liriche al “Metropolis” capolavoro filmico di Fritz Lang, ma anche e soprattutto nelle atmosfere. Suoni gelide, asettici, inquietanti, che proiettano nella mente la grandiosità dei grattacieli avveniristici ritratti con mano espressionista dal regista tedesco, sagome imponenti, ombre minacciose, paesaggi futuristici che calzano a pennello con quella che è la crociata ambientalista portata avanti negli anni dai Cult of Luna: il contrasto insanabile fra Uomo e Natura, la distruzione/alienazione/solitudine che il “progresso” porta con sé quando esso diviene dogma scriteriato. Sagome minacciose, ombre imponenti, una “verticalità” che ritroviamo nelle geometrie ardite di questi monumenti del disagio e dell'alienazione che cementificano dietro ad una spessa scorza di gelo il cuore pulsante che si cela in fondo alla musica del combo scandinavo. A partire dal drumming robotico (ma estremamente dinamico, nervoso, irrequieto) del nuovo ingresso Magnus Lindberg (ottimo), passando per le elucubrazioni delle tre chitarre, taglienti, desolanti nei fraseggi elettro-acustici quanto letali nelle inevitabili detonazioni (impasti sonori in cui gli strumenti non si confondono, non si smarriscono le linee melodiche, non si perde il gusto epico delle pennellate del basso distorto, il languore dei sintetizzatori), finendo con l'urlo soffocato di Klas Lydberg, vero grido di disperazione di un'umanità schiacciata dalla tecnologia.
La perfezione è forse l'unico difetto di questo possente mastodonte sonico: tutta suona perfetto, troppo, i suoni, gli arrangiamenti, l'equilibrio con cui si miscelano gli elementi, la loro disposizione, tanto che viene il sospetto che dietro a questa maniacale messa in scena si nasconda auto-indulgenza, mestiere ed una mal celata voglia di piacere, piacere tanto. Ma volete sapere una cosa? Me ne sbatto della piacioneria: forse non sono i più estremi, probabilmente non sono i più laceranti da un punto di vista emotivo, sicuramente non li annoveriamo fra i più grandi innovatori, ma i Cult of Luna di “Vertikal” sono in grado di confezionare un lavoro che sa intrattenere e sbalordire ben oltre quanto ci si possa aspettare da una band votata ad un genere come quello di cui stiamo parlando.
La differenza con il resto del mondo i Cult of Luna la dimostrano in due episodi: “Vicarious Redemption” e “In Awe of”. La prima è un colosso di diciannove minuti, ma, badate bene, qui non ci esaltiamo per una semplice questione di minutaggio: qui ci inchiniamo innanzi alla perizia ed alla maturità con cui un monumento del genere viene prima concepito e poi realizzato. La partenza dimessa (che ricorda inevitabilmente i Neurosis – per forza loro – più ambientali) è solo il preludio per un prevedibile saliscendi emotivo fatto di arpeggi prima e di riff massicci dopo, presto confluenti nei maestosi movimenti di un pachidermico doom, ancora oggi una componente determinante nell'economia del sound dei nostri. Ma quando meno te lo aspetti, è un break quasi techno ad interrompere il flusso, a cambiare il passo, ad aprire alla porzione finale del brano, che si fregia inaspettatamente di assoli che osano coniugare il gotico al post-metal, prima che tutto collassi nuovamente in un decelerante pandemonio elettro-acustico. Una volta c'era “The Rime of the Ancient Mariner”, oggi c'è Vicarious Redemption”, già un classico dei nostri tempi.
La seconda invece, nei suoi “soli” dieci minuti, costituisce l'apice emotivo dell'album: una coinvolgente suite dai sapori spudoratamente post-rock, non certo una novità in casa Cult of Luna, ma trainata da un'inedita verve chitarristica in chiave solista che nel suo incredibile dinamismo (fenomenale ancora una volta il supporto dietro alle pelli di Lindberg, asse portante su cui poggia il sound targato 2013 degli svedesi) fa impallidire persino i maestri, superando gli stessi cliché del genere.
Non che il resto sia da meno: l'opener “I: The Weapon” (preceduta dai due raggelanti minuti di synth dell'introduzione “The One”) ci mostra i Cult of Luna più frontali, splendidamente sospesi fra rocciosi assalti hardcore (molto math-rock l'abuso di contro-tempi e riff tagliati al millimetro) e fughe melodiche che si aprono imprevisti passaggi in un flusso sonoro in cui la sinergia fra i componenti diviene il reale valore aggiunto del tutto. In “Synchronicity” invece sono i Cult of Luna più cervellotici ed alienanti a parlarci (forse l'episodio maggiormente fine a se stesso, nella sua cerebrale artificiosità, ma indispensabile ai fini della trattazione del concept). Nella sinistra “Mute Departure” i Nostri tornano ad essere riflessivi, impotenti testimoni del degrado, tanto disinvolti da annettere al loro sound una voce pulita e tastiere minimali dal seducente andamento dark (molte, per tutta la durata dell'album, le suggestioni mutuate dall'universo della dark-wave di marca ottantiana), prima dell'inevitabile esplosione neurotica del finale. Ciliegina sulla torta: la pseudo ballata “ Passing Through”, esperimento già testato fin dai tempi di “Along the Highway”, soli cinque minuti (il brano più breve, tolti ovviamente l'introduzione e gli altri due intermezzi ambientali “The Sweep” e “Disharmonia”) in cui il clangore sonico dei Cult of Luna si sfalda nel frastuono tombale di rancidi arpeggi e nelle nenie ipnotiche di una voce roca e profonda, finalmente umana, la cui eco è chiamata a dissolversi lentamente nel silenzio di uno scenario che poco davvero lascia alla speranza.
Più un punto di arrivo che un luogo dal quale si possano sviluppare nuove strade, “Vertikal” non solo certifica lo stato di grazia compositiva (ed esecutiva) di una band che nella sua carriera quasi quindicennale non presenta cedimenti di sorta, ma si candida ad essere uno degli album più rappresentativi del “metal” degli anni duemiladieci, capace di fotografare e condensare, in una perfezione formale difficilmente ripetibile, le più interessanti tendenze del presente e del recente passato.
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