Tibet non si discute.
Mai.
In nessun modo.
Tuttavia è anche vero che neanche il fan più famelico è sempre in grado di metabolizzare l'incontinenza discografica del nostro piccolo grande menestrello dell'apocalisse. E così, a poco più di un anno di distanza dall'uscita del clamoroso “Alpeh at the Hallucinatory Mountain” esce in sordina, quasi in punta di piedi, il nuovo album “Baalstorm, Sing Omega”. Un lavoro sicuramente all'altezza del nome, della fama e del prestigio del marchio Current 93, ma che forse esce troppo a ridosso del suo importante predecessore per essere adeguatamente apprezzato.
Del resto si sa, l'arte di David Tibet è urgenza espressiva allo stato puro: tale è la sensibilità percettiva del Nostro, che oramai pare gli basti passeggiare per la strada e vedere un piccione volare per rimanere folgorato e gettare le basi del concept di un nuovo album. Non scherzo: sembra proprio che l'album nasca nel traffico cittadino di Roma, nel momento in cui Tibet vede sul ciglio della strada l'insegna di un kebabbaro (“Alpha and Omega Kebabs”). E da lì tutta una serie di rivelazioni, visioni e sconvolgimenti interiori che porteranno alla stesura di getto dell'album in questione. Un album che in verità vede le proprie fondamenta concettuali in un passo del monaco egiziano Abbot Shenoute in cui si commentano le parole del padre spirituale Pachomius, e dalle quali ci si ricongiunge al più tipico pensiero tibetiano (“The Great in the Small”, "The Alpha and the Omega" etc.): il mondo così diviene specchio della ricchezza interiore del folle poeta, più che mai vittima delle sue rivoluzioni spirituali, delle vere e proprie tempeste emotive, come del resto suggerisce il titolo dell'album.
L'intera opera si evolve tramite travolgenti accelerazioni che sconvolgono fasi di autentica stasi mistica: una stasi mistica non dimentica di una sorta di placidità bucolico-pastorale che sembra oramai esser divenuta la nuova dimensione dei Current 93 del terzo millennio.
Ma procediamo con calma: la folgorazione elettrica che ha animato le ultime uscite discografiche, ed in particolare il sublime lavoro dello scorso anno, svanisce completamente, rimanendo una eccitante parentesi nel multiforme percorso della Corrente. In “Baalstorm, Sing Omega” non troveremo quindi chitarre distorte e arrembanti batterie: la Corrente torna alla sua forma più congeniale, quella di un folk acustico sempre più tributario della tradizione dei folk-singer degli anni sessanta. Merito senz'altro dei nuovi compagni di viaggio di Tibet, il cui cammino marcia oramai al passo compatto di una squadra di fedeli commilitoni, come già successe nella decade dei novanta. E così il giovane talentuoso delle dodici corde James Blackshaw prende definitivamente il posto del mitico Michael Cashmore, mentre il piano e le strampalate cavalcate d'organetto di Baby Dee rimpiazzano il romanticismo e la classe di Maya Elliott. Il violoncello del fido John Contreras è il miglior erede del violino di Joolie Wood, mentre il veterano Steven Stapleton trova un valido sostituto in Andrew Liles alle manipolazioni elettroniche, che sempre hanno giocato un fondamentale ruolo di rifinitura negli album della Corrente, nonostante l'impostazione sostanzialmente acustica. A completare il quadro, troviamo le sgraziate e divertite vocine delle bambine Isabel e Bea Taylor, folgoranti incursioni che non possono non richiamare un album dai contorni fanciulleschi come “All the Pretty Little Horses”.
Già, che riferimenti dare per inquadrare questo nuovo lavoro targato 2010? Veramente difficile dare delle indicazioni precise, se non evocare gli ultimissimi lavori, epurati ovviamente dalla componente più caustica e sperimentale: si prendano così ad esempio i passaggi più rilassati di “Aleph at the Hallucinatory Mountain” e dell'EP che di poco l'ha preceduto “Birth Canal Blues”.
Facile è invece tracciare il percorso della “band” nell'ultimo decennio, caratterizzato nella sua prima parte da una confusione concettuale dettata dai travagli interiori di Tibet, e scaturenti nell'approdo al cristianesimo totalizzante e misterico di “Hypnagogue”; negli anni successivi rinverremo invece una nuova consapevolezza ed una vera rinascita artistica inaugurata da un album fondamentale come “Black Ships Ate the Sky”, che ha visto il progressivo abbandono degli stilemi più tipicamente neo-folk ed un felice approdo ad un cantautorato più canonico e sovente contaminato dai fumi lisergici del rock più acido e psichedelico (di ovvia derivazione settantiana).
“Baalstorm, Sing Omega” si ricongiunge armonicamente a questo filone, anche se la musica dei Current 93 rimane qualcosa inclassificabile ed in continua mutazione, e non riconducibile ad altro se non a se stessa, tanto che, in più di un frangente, aleggia senz'altro una pesante sensazione di deja-vu. Ma Tibet è pur sempre in grado di assestare almeno quattro-cinque colpi vincenti in questo album: un album che suona strano, incompleto, sfumato ed inafferrabile, probabilmente anche per la sua durata abbastanza contenuta (appena tre quarti d'ora) e quindi per la durata contenuta dei singoli brani, che non vanno mai oltre i sei minuti (cosa insolita per un album dei Current 93). Se raffrontato ad un'opera mastodontica come “Black Ships Ate the Sky” e ad una rivoluzionaria e densa di novità come “Aleph at the Hallucinatory Mountain”, l'impressione che ci dà “Baalstorm, Sing Omega” è senz'altro quella di un passaggio interlocutorio, quasi alla stregua di un sostanzioso EP (e forse, sforbiciando qua e là, per davvero avremmo potuto avere per le mani un EP come tanti altri EP che hanno rappresentato similari fasi di transizione non definita nel tortuoso tracciato della Corrente).
Eppure “Baalstorm, Sing Omega” si fa ascoltare alla grande, non suona “importante” come i suoi immediati predecessori, eppure piace, coinvolge, emoziona.
Basti considerare la sublime opener “I Dreamt I Was Aeon”, senz'altro l'episodio più drammatico e carico di pathos dell'intero platter: aperto dal tragico piano di Baby Dee, nei primi minuti il brano sembra muoversi in una dimensione arcana e misteriosa. I liturgici contrappunti di organo sembrano riportarci al prog più paesaggistico degli anni settanta. Tibet decide di aprire il suo ultimo lavoro con un teso requiem in cui la sua è un'invocazione che ci trascina indietro nel tempo, un'invocazione che cresce d'intensità, fin quando le parole si stemperano nella stasi degli archi di una inquieta musica da camera, presto raggiunta nuovamente dal piano di Baby Dee. Un episodio a parte, in verità, rispetto al resto dell'album, poiché già dalla successiva “With Flowers in the Garden of Fire”, animata da percussioni sornione e il pizzicato rurale della chitarra di Blackshaw, entriamo nel mood di un album che odora di campi di grano, praterie e terra bruciata dal sole.
Come si diceva in principio, l'album vive di progressive accelerazioni, ricalcanti la turbolenza emotiva del suo deus ex machina Tibet. E così “September 1971”, che nasce fra il fragore delle onde ed una commistione di chitarra ed archi che tanto mi ricorda la famigerata “Ostia” dei Coil, è una folk ballad visionaria ed incalzante animata dalla poetica allucinata di un Tibet in stato di grazia. “Baalstorm! Baalstorm!”, trasportata dal piano frenetico di Baby Dee, ne è la naturale prosecuzione (ed estremizzazione): Tibet si lancia in salmi degni di un profeta in preda ad estatiche visioni, presto travolto dal montare travolgente dell'elettronica comandata dal portentoso Liles.
Poiché dopo la tempesta giunge sempre la quiete, l'opera prosegue al passo sonnecchiante di ballate acustiche non certo memorabili ma piacevoli e coerenti con il procedere del concept. Fra queste va comunque citata la bellissima “The Nudes Lift Shields for War”, in cui le gloriose ed evocative ballate dei tempi di “Thunder Perfect Mind” sembrano rinascere sotto il segno di un cantautorato epico e solitario in stile tardo Johnny Cash (merito senz'altro dei solenni rintocchi di xilofono del fondamentale Blackshaw).
Un seconda parte quindi più riflessiva e pacata, interrotta bruscamente dal brano più folle del lotto, chiamato degnamente a chiudere le danze: “I Dance Narcoleptic” riprende gli umori tempestosi della prima porzione dell'album, l'organetto ubriaco di Baby Dee corre all'impazzata, terreno ideale per l'isteria di un Tibet di fuoco, truce ammaestratore di bestie fameliche di un circo infernale, un delirio che si fregia delle estranianti incursioni vocale delle due bambine. Un brano fuori dal mondo, che solo Tibet e la sua carovana di dannati poteva concepire e trasporre in musica.
A questo punto, il silenzio che precede una eterea ghost-song: “Baalstorm Sing Omega” finisce così, fra il rifrangersi delle onde sugli scogli ed un canto lontano ed inafferrabile.
Tiriamo quindi le somme: l'ultimo lavoro dei Current 93 non si merita certamente il massimo dei voti, ma si guadagna senz'altro il nostro pieno rispetto. Dopo quasi trent'anni di onorata carriera, David Tibet pare lontano, lontanissimo dal suo capolinea artistico: a questo punto, è legittimo guardare all'Immortalità.
The Great in the Small
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