HORSEY:
Terrify Not Man Lest God Terrify Thee:
Current 93
"Horsey" vede la luce nel 1997 ed è certamente da includere nella lista degli album atipici dei Current 93.
In questo esperimento, che possiamo etichettare come "folk/noise", l'inossidabile poetica di David Tibet si apre al fragore delle chitarre elettriche, con risultati, tuttavia, non sempre convincenti.
Parlare di album vero e proprio è in realtà non del tutto corretto, dato che il materiale qui raccolto scaturisce da due sessioni differenti, registrate in luoghi e circostanze diverse, con l'apporto di musicisti diversi.
I primi tre brani, infatti, non sono altro che la riesumazione dell'EP "Horse", pubblicato originariamente nel 1990 in un box oggi rarissimo, che conteneva originariamente, oltre l'EP in questione, anche "Lumb Sister" dei Nurse with Wound" e "Lex Talionis" dei Sol Invictus.
Gli ultimi tre brani, invece, scaturiscono da una sessione registrata in presa diretta a Shizuaka: un esperimento d'improvvisazione in cui Tibet si contorna di musicisti giapponesi capaci di iniettare nel sound collaudato della Corrente una buona dose di sferragliante noise-rock (!!!).
Inutile dire che la parte "inglese", forte della partecipazione di personaggi del calibro di Steve Stapleton, Tony Wakeford e Douglas P., è delle due la più interessante.
I primi due brani sono autentici capolavori: l'opener "Diana", cover dei Comus, si apre con un giro di violino ripetuto in loop su cui s'innesta il poetare nervoso di David Tibet. Seguiranno tragici rintocchi di piano, il fragore della chitarra elettrica, il pulsare wakefordiano del basso, in un crescendo che nel complesso ricorda (impropriamente o meno) i fraseggi elettro-acustici di una "Cupe Vampe" dei nostrani CSI.
"The Death of the Corn" è invece la tipica ballata folk dei Current 93, a mio parere una delle più belle ed intense di sempre, destinata non a caso a divenire un vero classico della band. Evidenti i rimandi all'arte dei Sol Invictus, soprattutto per l'inconfondibile stile di Tony Wakeford alle quattro corde.
Chiude questa prima parte una poco coinvolgente "Thee", episodio alquanto anonimo in cui tornano i fischi delle chitarre elettriche a sporcare le farneticazioni di David Tibet, eternamente fedele alle sue visioni: una rilettura dell'arte terribile dei primi Current 93 attraverso le sonorità acide e rugginose di un claustrofobico noise-rock.
La parte "giapponese", seppur più audace negli intenti, non si assesta sugli stessi livelli di qualità.
"Broken Birds Fly I (Maldoror Waits)", apparsa originariamente in un cd bonus nella rivista "Plotemaic Terrescope", apre questa seconda terna all'insegna di suoni ipnotici ed incalzanti in cui il canto sgraziato di Tibet riprende il sempiterno tema di Maldoror, tanto caro all'artista inglese, riproposto in tutte le salse lungo il suo personale viaggio artistico.
Il pezzo, pur costituendo un lodevole tentativo di trasmutare lo spirito della Corrente in una dimensione più propriamente rock-psichedelica, finisce tuttavia per annoiare, forse perché il tutto può suonare come un esercizio d'improvvisazione fine a se stesso.
Meglio allora i caustici dieci minuti della title-track: "Horsey" è un altro estenuante crescendo elettrico, scosso dai battiti nervosi della batteria e dai paranoici giri di chitarra. Verso la sua metà, il brano avrà l'ardire di sfociare in una vera e propria cavalcata dal retrogusto metal (!!!).
Del brano in questione, per la cronaca, esiste anche una versione acustica, decisamente migliore di questa: è la "Hooves" mai pubblicata dai Nature & Organization di Michael Cashmore, recuperata poi nella raccolta "Emblems: The Menstual Years", riproposta spesso dal vivo e da annoverare senza dubbio alcuno fra i classici dei Current 93.
"Broken Birds Fly II (Maldoror Wails)", che è praticamente uguale alla prima parte, chiude le danze senza entusiasmare.
In definitiva un lavoro che manca di coesione, questo "Horsey", in cui i diversi episodi risentono della mancanza di un concept unico che li leghi e dia loro un senso compiuto.
Un album, tuttavia, che a tratti sa davvero entusiasmare e che, più in generale, rimarca il coraggio e la voglia di sperimentare di un artista inquieto e senza posa come David Tibet, che con "Horsey" ci consegna una parte inedita di sé, nonché un altro significativo tassello (l'ennesimo) di una carriera incredibile e ricca di colpi di scena.
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