Dal culto delle dottrine di Alesteir Crowley, passando per il satanismo naif e fanciullesco di "Swastikas for Goddy", attraverso le citazioni bibliche di "Imperium" e le speculazioni teologiche di "Christ and the Pale Queens Mighty in Sorrow", fino ai travagli spirituali patiti in "Of Ruine or Some Blazing Starre".
Poi la Luce, la trilogia di "Inmost Light", la lotta contro le ombre. L'annebbiarsi e lo svanire progressivo degli antichi fumi infernali, fino alla fragilità esistenziale, irrisolta di "Soft Black Stars": l'intero iter artistico dei Current 93 è in realtà un viaggio turbinoso per i meandri della vita interiore di David Tibet, attraverso i suoi motti di spirito, le contorsioni del suo pensiero, l'evolversi delle sue convinzioni riguardo alla vita, alla morte, al senso dell'esistenza dell'uomo su questo mondo.
Con "Hypnagogue" si compie un nuovo ed importante passo nella definizione esistenziale dell'artista: "Hypnagogue" è l'approdo definitivo al Dio cristiano ("God is Love" recitano le scarne note nel booklet interno) e fin dalla copertina, che cattura la bellezza di un mandorlo in fiore, si vengono a palesare gli umori e la fragranza di una vera e propria primavera dell'anima.
Le forme e la modalità di questa rifiorire, tuttavia, non ci è dato saperle, considerato il potere trasfigurante della mente poetica di David Tibet: ribattezzatosi per l'occasione David Micheal (proprio per rimarcare l'inizio di una nuova fase artistica e sancire un taglio netto con le imperdonabili eresie del passato), Tibet continua in realtà a parlarci di gatti, Cristo, cavalli, bambini, dell'Alfa, dell'Omega, di Morte, Apocalisse e tutte quelle immagini e figure che da sempre popolano il suo mondo interiore.
"Hypnagogue: A Dream Prologue" è un lungo e complesso scritto composto fra il 2002 e il 2003 (ben nove le sezioni che lo compongono), concepito come prologo per un album di imminente uscita, ma che non troverà realizzazione effettiva. Nel 2003 viene così pubblicato questo EP che immortala in presa diretta la lettura del brano da parte di Tibet, accompagnato dalle improvvisazioni di piano di Maya Elliott. Sempre più perso negli abissi dei propri travagli esistenziali, e assai meno preoccupato dagli aspetti formali, Tibet ci consegna così il suo lavoro più essenziale: un lavoro in cui a dominare è il solo potere evocativo delle sue parole.
L'espressione "Hypnagogue" rende bene gli umori dominanti in questo lavoro, a metà strada fra un'omelia e una seduta d'ipnosi: le parole di Tibet scivolano nell'aere, musicali, ipnotiche, magnetiche, riverberate come sotto volte sacrali di una cattedrale mentale, fuori dal tempo e dallo spazio. Il loro echeggiare nel vuoto è, non di meno, la nuova espressione della componente esoterica che da sempre caratterizza la Corrente: con ferrea coerenza, concettuale e stilistica, l'operazione di riduzione iniziata con "Soft Black Stars" (e perseguita negli album successivi, ed in particolare con "Sleep Has His House" e "Bright Yellow Moon") procede imperterrita (mettendo paura, a dir la verità, a più di un fan, me compreso, preoccupati di una inquietante deriva minimalista - paura poi fugata dal bellissimo "Black Ships Ate the Sky" del 2006, gradito ritorno alle sonorità folk).
"Hypnagogue I/Hypnagogue II", pubblicato nel 2005, raccoglie, oltre l'EP "Hypnagogue: A Dream Prologue", un'altra versione della stessa esperienza. Due lunghe tracce, quindi, separate da cinque minuti di silenzio: una pausa che va giustamente a rimarcare lo spazio temporale fra una registrazione e l'altra, rammentandoci che le due esperienze non compongono un percorso unitario e consequenziale, ma costituiscono differenti manifestazioni dello stesso impeto artistico.
"Hypnagogue II", registrata nel 2005, si avvale dell'accompagnamento di Michael Masley, alle prese con un "bowhammer cymbalom", sorta di indefinibile strumento che all'orecchio del profano suonerà come una via di mezzo fra un'arpa, una chitarra acustica, un sitar indiano ed un violino. Le improvvisazioni di Masley si rivelano qualcosa di fenomenale e sono in grado di allestire, per un totale di 25 minuti di estasi onirica, una dimensione spirituale, ascetica, apocalittica (e come poteva essere altrimenti!) in cui le evoluzioni/involuzioni canore di Tibet si calano in modo a dir poco perfetto.
In "Hypnagogue I", l'originale del 2003, il piano cristallino e limpido della Elliott ci riporta alle malinconie di "Soft Black Stars"; il suo tocco, leggero, elegante, vagamente tributario dell'estro di Debussy, va a sottolineare l'intensità dei passaggi più significativi del monologo di Tibet, a rimarcare il potere evocativo delle sue parole. Dal canto suo, l'interpretazione teatrale di Tibet è in grado di catturare l'ascoltatore, rapirlo, condurlo verso quel pezzetto di Divino che noi tutti ci portiamo dentro ("The Inmost Light"), quella porzione di Universale ("The Great in the Small") che ci rende partecipi della grande anima dell'universo, dell'infinito amore di Dio. Personalmente parlando, questa versione riesce ad essere ancora migliore dell'altra, che già non era affatto male. Non solo in virtù dell'interpretazione di Tibet (meno sorniona e più dinamica, incalzante, ricca di sussulti), ma anche e soprattutto per l'alchimia speciale che si viene a creare fra i due artisti.
Veniamo al dunque. Valutare un discorso di questo tipo si rivela ovviamente difficile. Se prendiamo in considerazione l'intero iter discografico/filosofico di Tibet, è fuori ogni dubbio che "Hypnagogue" ne rappresenti una tappa fondamentale, un momento cardine, un autentico punto di arrivo: i versi qui contenuti sono probabilmente fra i più belli e sentiti di sempre, per certi aspetti rappresentano la forma più evoluta dell'arte poetica di David Tibet. Solo per questo motivo "Hypnagogue" si merita il massimo dei voti.
Da un punto di vista formale è invece lecito affermare che uno scarno poetare su un sottofondo di improvvisazioni musicali non costituisce di per sè niente di particolarmente straordinario. La forma eccessivamente ermetica di questa nuova incarnazione della Corrente, non di meno, può creare seri problemi a chi è poco avvezzo a sonorità del genere (in questo senso, per agevolare e rendere più sensato l'ascolto, è consigliabile scaricarsi le liriche dal sito della band).
Straordinario è invece il pathos creato dall'interpretazione di Tibet, il filo poetico che lega le immagini, l'impeto emotivo, la sincerità, la forza espressiva, il valore "esperienziale" dell'opera nel suo insieme. Questo, si sa, è però appannaggio esclusivo di chi ama l'artista in questione, e non sono in molti, purtroppo. Per tutti gli altri queste due versioni di "Hypnagogue" suoneranno, temo, come un fastidioso sbrodolìo di parole.
Niente voto, quindi, questa volta. Ci tengo però a precisare che per me questo è un lavoro meraviglioso e che quella di cui parliamo è musica che non va sentita con le sole orecchie, ma vissuta con la totalità dell'essere, in profondità, con attenzione ed anche con un pizzico di devozione.
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