Uscito nel 2000, "I Have a Special Plan for this World" accantona momentaneamente le ambientazioni intimistiche e cantautoriali del nuovo corso artistico di David Tibet ("Soft Black Stars" ne era stato il manifesto), per compiere un tuffo nel passato più nero della band.

Seppur assai meno iconoclasta dei primi lavori, si tratta a mio parere di un vero pugno nello stomaco: "I Have a Special Plan for this World" è un viaggio disturbante (un'unica composizione di ventidue minuti), che consolida il sodalizio artistico con lo scrittore Thomas Ligotti, con cui la band aveva già collaborato in precedenza (il doppio album "In a Foreign Town, in a Foreign Land" è l'illustre precedente). Anche in questo caso la Corrente diviene la trasposizione in musica dell'inquieta arte letteraria dello scrittore americano.

Tibet non si limita a confezionare una colonna sonora per lo scritto di Ligotti, Tibet allestisce un'opera d'arte a sé stante, capace di rispecchiare gli intenti dello scrittore ed amplificarne la forza espressiva. Tanto che è impossibile scindere l'aspetto concettuale da quello formale. Beninteso, non si tratta di musica descrittiva: lungi da tentazioni banalmente didascaliche, i Current 93 sfornano un lavoro capace di ricalcare la struttura complessa del racconto, utilizzando gli escamotage che il medium musica mette a disposizione. Ma non solo: Tibet fagocita le ossessioni e gli spunti riflessivi posti dal racconto di Ligotti, rielaborandoli alla luce di quei temi spirituali ed escatologici che da sempre permeano il suo percorso artistico.

Da un punto di vista strettamente musicale, si parla il linguaggio di un chirurgico dark-ambient, dove ogni nota viene rigorosamente calibrata e collocata nella giusta posizione. Si parla di un ossessivo giro di synth che va e viene per tutta la durata del brano, e non è un caso che ad accompagnare Tibet in questa operazione vi sia il maestro dell'elettronica trita-maroni Steven Stapleton, che non poco influisce sulla resa finale, tanto che il tutto finisce ad assomigliare più ad un album dei Nurse With Wound, che a qualsiasi altra cosa uscita a nome Current 93.

Da un punto di vista concettuale, l'opera presenta una notevole complessità. Come nei thriller del maestro Hitchcock o in un horror psicologico degno del migliore Polanski, o negli incubi cinematografici di David Lynch, Tibet gioca sull'ambiguità, sull'inquietudine e sulla tensione: il pathos narrativo si regge non sull'effettaccio gore, bensì sulla dialettica del detto/non detto, sul continuo avvicendarsi di differenti piani dimensionali.

Proprio come i film di Polanski giocano sulla labile contrapposizione fra realtà e follia, e quelli di Lynch fra conscio ed inconscio, in "IHASPFTW" si oscilla continuamente fra "oggettività" (un plot a cui ci affidiamo, almeno temporaneamente) e rappresentazione mentale.
Il racconto di Ligotti, dal canto suo, non segue un percorso lineare, e certi passaggi rimangono enigmatici (aiuterebbe una traduzione in italiano; io mi sono andato a cercare su internet il testo in lingua originale). Il meccanismo è quello delle scatole cinesi, dove a delle riflessioni generali che fanno da cornice, segue il punto di vista dell'Io narrante, entro il quale si articolano vicende narrate sia in prima che in terza persona. Si parla di oscurità, e di una luce che si trova in fondo ad essa (si tratta forse del miraggio dell'Aldilà?). Vi è poi un goffo personaggio che fa divertire i bambini (Gesù Cristo? Dio in persona?), di un orribile spettacolo di bambole (le gesta di un'umanità intera appesa ai fili di un misterioso puparo?).

In mezzo c'è un'anima inquieta, un'anima che ha perso ogni speranza e che ha raggiunto l'oscurità attraverso i neri corridoi del dolore. Un'anima che si pone delle domande e che si dà delle risposte, incarnando la sicurezza di chi non ha più illusioni e non coltiva più sogni. Fino all'agghiacciante finale, che rimette tutto in gioco, come se l'individuo, per quanto si porti ad un passo da quello che egli pensa sia verità, non possa in nessun modo raggiungerla e sia condannato alla farneticazione, fintanto che egli guarderà le cose attraverso i canali percettivi di cui l'uomo dispone per muoversi in questo mondo.

La vita, quindi, come un continuo scavare nell'oscurità, nel cui fondo si agita il flebile luccichio di una fiammella che pare a portata di mano, ma che è nei fatti irraggiungibile. E l'uomo, per quanto disilluso, per quanto spogliato dai sogni e dalle illusioni che deformano il mondo e depistano dalla verità, conserva inevitabilmente il carattere limitato della sua umanità. Poiché la verità, ammessa che ve ne sia una, è incomprensibile, al di là della più penetrante delle speculazioni. Una verità che apprenderemo forse un giorno da morti, una verità che inonderà l'intelletto, che difficilmente potremo apprendere, come Dante, al termine del suo viaggio iniziatico, non potette sostenere la visione di Dio. Una verità che atterrisce, che fa storcere e tremare la mandibola, che ci rende poveri dementi.

Ma questa è solo una dimensione dell'opera: è l'Io narrante, a cui stiamo dietro e forse è solo una vana voce che non ha altri intenti che quello di portarci beffardamente fuori strada. Tibet impersona magistralmente la voce dell'Io narrante: mai sopra le righe, si lancia in una interpretazione del testo appassionata, ma sobria, senza cadere in tentazioni teatrali, se non in qualche malsano guizzo, ma sempre sottolineando con estrema cura ogni passaggio del racconto. La voce di Tibet ci giunge da lontano, come se provenisse da una vecchia radio scassata, interrotta continuamente da una frequenza disturbata, ove si ode il singulto, il rantolo sommesso ed incomprensibile di un essere umano forse non più tale. Le due dimensioni si avvicendano intervallate da un clic, come se una mano misteriosa decidesse di passare dall'una all'altra premendo l'interruttore di un apparecchio.

Tre, quindi, sono i piani utilizzati per raccontarci la storia: 1) l'Io narrante, 2) colui che si lamenta, 3) colui che preme l'interruttore. Ma di chi è lo straziato singhiozzo? E' di colui che non comprende? E la stilizzazione dei suoi versi va proprio a costituire una metafora del suo essere limitato? Oppure, al contrario, è colui che comprende, e ha da lamentarsi proprio in virtù della sua consapevolezza? Dei terribili segreti a cui è pervenuto? (Sempre assumendo il cinema di Lynch come pietra di paragone, pensiamo alle trame apparentemente inesistenti dei suoi film, dove in realtà, mediante gli allucinanti collage finali, si finisce per apprendere che ciò che ci pareva il plot portante dell'opera era in realtà il frutto dell'immaginazione offuscata del protagonista, e viceversa).

Parimenti: chi è l'Io narrante che ci intrattiene? Colui che perviene alla verità? Colui che semplicemente si illude di farlo? E le due voci, in che rapporto stanno? Sono forse la stessa entità vista da punti di vista diversi? L'una è il destino dell'altra? E' quindi il piano temporale ad essere sfalsato? Ma soprattutto: chi è che cambia continuamente trasmissione? E da qui discenderebbero milioni di disquisizioni sul piano filosofico-esistenzialista.

Nell'agghiacciante finale le cose si complicano ulteriormente, è come se ad un certo punto il personaggio interpretato da Tibet, alla stregua della più tipica farsa pirandelliana, scendesse dal palcoscenico e si mescolasse fra il pubblico. Gli ultimi destabilizzanti minuti della composizione, si badi bene, non sono l'espressione della follia visionaria che infesta il cervello di Tibet, né un effettucolo per destabilizzare i più sensibili. Il passaggio finale, a veder bene, è l'inevitabile sbocco di un gioco che si basa sulla contrapposizione di punti di vista, o, meglio ancora, sul dialogo impossibile fra canali percettivi differenti. E' l'ultima scatola che rimane da aprire in questo gioco di scatole cinesi.

La scatola che ci riserva la sorpresa peggiore...

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