Il titolo dell'album trae in inganno: “Live at Bar Maldoror” non è la registrazione di una performance dal vivo, bensì il terzo full-lenght ufficiale della creatura di David Tibet.
Si tratta indubbiamente di un'opera minore all'interno della sterminata serie di uscite discografiche pubblicate nel corso degli anni dalla Corrente: uscito nel 1986, “Live at Bar Maldoror” raccoglie in verità remix e rifacimenti di composizioni presenti nei due capolavori che l'hanno preceduto, “Nature Unveiled” e “Dogs Blood Rising”. Vero è che in un contesto di musica industriale, l'operazione del remix assume valenze particolari e lontane da quella che oggi è divenuta una bieca mossa commerciale: nella musica industriale, arte della trasfigurazione per eccellenza, lavorare su un lavorato significa re-inventare, ridefinire, imprimere nuove significanze concettuali. Nonostante questo, l'album rimane tutto sommato un episodio trascurabile, consigliato esclusivamente ai fan completisti della band.
Le atmosfere, i contenuti rimangono quelli dei due lavori precedenti, riletti e rielaborati in una chiave più vividamente ambientale; o, dato il contesto, potremmo dire catacombale. Posare il disco sul piatto o inserire il cd nel lettore significa spalancare abissi impensabili nelle anguste stanze nostre. Non faticherete a credere che i due primi pezzi, rispettivamente 19 e 23 minuti, saranno in grado di squagliare le coordinate spazio-temporali con cui usiamo leggere e misurare il Reale.
La destrezza di Steve Stapleton nell'arte dell'assemblaggio e del collage industriale è evidente in ogni istante dei 52 minuti che compongono l'opera, confezionata in maniera più che professionale: i suoni sono infatti ottimi, pieni, rotondi, come un confortevole sudario in cui avvolgersi nel chiuso di una bara.
Live at Bar Maldoror” è una sorta di subbuglio dell'inconscio, fatto di immagini sfocate, rarefatte, presenze fantasmatiche che si sovrappongono e confondono fra di loro. Gli oscuri cerimoniali di Tibet scorrono con maggiore fluidità che in passato, il lato percussivo viene quasi azzerato, le voci sono smaterializzate in echi e riverberi, impastate in un voyage terrible fatto di ombre e dense e melmose e morbose onde sonore. L'ascolto spazia così fra il terrorizzante e il traumatico, e nonostante l'album non porti in sé quella propulsione avanguardistica ed eversiva dei lavori precedenti (che indubbiamente hanno indicato nuove vie all'interno della musica “dark” in senso più ampio) rimane uno degli episodi più terribili della discografia della Corrente, nonché uno degli esempi più vividi di cosa s'intenda per industrial esoterico.
Alone into the Alone” è il remix della colossale “Ach Golgotha (Maldoror is Dead)” (da “Nature Unveiled”): un baratro in cui rinvenire i temi di “Christus Christus” e “Jesus Wept”, entrambe originariamente presenti in “Dogs Blood Rising”.
“Only Shadows of the Hook” mescola in un'orgia infernale “The Mystical Body of Christ in Chorazaim” (sempre da “Nature Unveiled”) e le già citate “Christus Christus” e “Jesus Wept”.
Nei due pezzi rimanenti, le brevi e minimali “Christ's First Howling” e “Fields of Rape”, si fa sentire molto la mano di Stapleton, e non è un caso che entrambi i brani si muovano sulle orme lasciate dal suo progetto principe Nurse With Wound.
Live at Bar Maldoror”, in definitiva, non è affatto un brutto album, ma alla resa dei conti suona prolisso e ridondante, anche se l'operazione conserva un suo perché, una sua ragion d'essere, una sua urgenza comunicativa: un passo di ulteriore chiarificazione ed approfondimento reso necessario dall'interiore irrequietezza della psiche disturbata di Tibet, che evidentemente aveva bisogno di indugiare su certe sensazioni ed in particolare sul tema di Maldoror, principio cardine di questa prima fase della sua carriera.
L'album, ahimè, costituisce anche il primo timido segnale che un certo tipo di percorso si stava già esaurendo, e questo principalmente per l'irripetibiltà (in quanto a carica innovativa, creatività e forza espressiva) delle due esperienze precedenti.
Con il senno di poi, infine, possiamo sostenere che già alle origini del suo cammino, Tibet avrebbe peccato di una eccessiva prolificità che non sempre saprà centrare il bersaglio.
"Live at Bar Maldoror” ne è un esempio.
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