È il 1998 e David Tibet decide di dare un'ulteriore svolta al sound dei suoi Current 93. Le asperità industriali ed esoteriche del passato sono oramai un lontano ricordo, ma con questo "Soft Black Stars", da molti considerato uno dei più affascinanti capitoli della sterminata discografia del gruppo, Tibet sembra voler prendere le distanze anche da quel folk acustico che era parso come l'evoluzione ultima della sua creatura.

Non ci sono molte parole da spendere su questa opera, estremamente introspettiva, minimale, a tratti autistica. Con i suoi silenzi e i suoi chiaro-scuri essa si pone nei confronti nell'ascoltatore come un labirinto di neri specchi, in fondo al quale non vi si trova altro che la propria immagine riflessa. L'esperienza è qualcosa quindi di strettamente personale, e le sensazioni mutano a seconda di chi siamo e dello stato d'animo con cui ci accingiamo a viverla. Il corpo sonoro è qui sostenuto dalle malinconiche melodie del pianoforte di Maya Elliott (lontana da ogni virtuosismo, più vicina, piuttosto, nell'attitudine come sensibilità, ad un autore come Satie), sulle quali si staglia la voce dello stesso Tibet, che in questa sede si fa ancora più sommessa e gracile.

Sporadicamente capita di udire un violoncello o delle voci o lo scricchiolio di passi in lontananza che il lavoro di produzione, pressoché inesistente, non ha messo a tacere. Un discorso a parte va fatto per l'ultima traccia, un funereo ambient in cui ricompaiono i drones e le manipolazioni elettroniche del fido Stapleton (mente dei Nurse with Wound, qui anche in veste di produttore) e i lontani arpeggi della chitarra di Cashmore (dai Nature & Organization, qui pure al piano), 10 minuti che non cambiano sostanzialmente il mood generale dell'album, un'opera ostica, ermetica, estremamente personale, lontana da ogni tipo di etichetta o genere, e perfino da ogni altro lavoro del gruppo stesso: del loro folk apocalittico rimane solo l'atmosfera tesa ed estremamente malinconica, nonché la profondità di un artista abituato a non risparmiarsi e a dare tutto se stesso.

È un'opera, questa, che nella sua disarmante semplicità chiede di essere ascoltata, capita, interpretata. È importante questa precisazione, poiché ad un primo ascolto rischiamo veramente di rimanere delusi, nonostante tutta la buona volontà che possiamo impiegare. Non si tratta certamente di un disco per tutti, e sono convinto che a molti non piacerà, giudicandolo troppo prolisso (probabilmente a ragione se si è avvezzi ad altre sonorità): le diverse tracce tendono a somigliarsi, esse confluiscono l'una nell'altra senza regalare variazioni degne di nota, le melodie del piano scorrono leggere ed apparentemente anonime, il quieto canto di Tibet non regala sussulti. Non aiuta la mancanza dei testi, fra l'altro molto belli, nel booklet del cd (a dir la verità, nella versione che possiedo non sono riportati nemmeno i titoli – alla faccia del minimalismo! – ma fortunatamente mi pare si sia ovviato nella recente ristampa). Un lavoro che presenta ben poche variazioni, eppure, se si ha la pazienza di attendere, la costanza di metabolizzare questi suoni, la volontà di trovare una propria via in questo malinconico labirinto, come per incanto l'opera cambia volto: ascolto dopo ascolto essa inizia a rivelare i propri segreti.

Tesori che non ci vengono dati, ma che debbono essere conquistati, carpiti, colti fra le righe, rinvenuti nei temi che ritornano, nelle melodie che muoiono e rinascono in continui rimandi, nella fragilità e nella poesia delle parole di Tibet, rimembranze e ricordi di una vita passata e spesso rinnegata, la stretta dolorosa del pentimento e dei rimorsi, la ricerca del perdono, il desiderio di redenzione, la speranza di una rinascita. Seguite il suo lento poetare, coglietene le sfumature, un'intonazione, un accento, il modo in cui viene pronunciata una parola, qui si tratta di una vera e propria caccia alle emozioni. Un opera da consumare quindi come un vino pregiato, a piccoli sorsi. Da abbandonare se necessario, e da riprendere successivamente, quando se ne sente il bisogno. Un'opera profonda, crepuscolare, ricca di sfumature come i riflessi striati di un cielo al tramonto, capace di assumere volti diversi, a seconda dello stato d'animo e delle condizioni in cui lo ascoltiamo. Io stesso mi stupisco di come ogni volta questa musica riesca ad assumere una forma diversa, di come ogni volta emerga un particolare nuovo, un aspetto non colto durante gli ascolti precedenti.

Questa opera cambia, cresce, matura con l'ascoltatore. Lasciatevi rapire.

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