"Swastikas for Goddy" si è negli anni guadagnato lo status di vero e proprio classico del folk apocalittico.
E questo per svariati e validi motivi: anzitutto perché costituisce una prima esplorazione nell'universo folk da parte della creatura di David Tibet, dedita fino a quel momento a sfornare disturbanti macigni di industrial esoterico. Poi, perché qui possiamo trovare brani leggendari che hanno fatto la storia della formazione e del genere intero. Infine, perché in esso ci suona praticamente tutta la scena industrial folk, inglese e non, di quegli anni. A dar lustro alla faccenda è in particolare la presenza di un certo signor Douglas Pearce, da sempre amico del buon Tibet (che a sua volta aveva, in più di una circostanza, dato una mano in casa Death in June), chiamato qui a prestare chitarra e voce, influendo non poco sull'esito dell'operazione.
Ad impreziosire ulteriormente il piatto troviamo anche il contributo di John Balance (Coil), dell'onnipresente Rose McDowall, di Ian Read (Fire+Ice e Sol Invictus), di Freya Aeswynn (che farà anche qualche capatina dalle parti dei Fire+Ice dello stesso Read) e di Boyd Rice (NoN). Trovano spazio, infine, anche l'immancabile Steve Stapleton (Nurse with Wound) per l'occasione all'harmonium e al violoncello, e l'artista islandese HOH (dalla cui collaborazione nasceranno l'EP "Crowleymass" e il bellissimo "Island") all'arpa.
Insomma, di buone ragioni per far proprio questo album ce ne sono. Ciò però non significa che necessariamente si tratti di un capolavoro. A mio parere, infatti, "Swastikas for Goddy, che è innegabilmente un passaggio fondamentale nell'evoluzione artistica dei Current 93, è un frutto ancora acerbo, un lavoro a tratti approssimativo, in cui non sempre, purtroppo, si respira quell'ispirazione che troviamo invece in altri album dei Current, senz'altro meglio concepiti e confezionati di questo.
"Swastikas for Goddy", uscito nel 1987, è l'album più anarchico, istintivo ed immediato di Tibet, e si presenta come un bizzarro guazzabuglio di versacci, filastrocche, invocazioni e brevi episodi spesso solo abbozzati. In ciò, sostanzialmente, risiedono pregi e difetti dell'opera, a seconda dei gusti personali: se infatti qui si respirano una sponaneità ed una freschezza che apportano senz'altro un valore aggiunto, soprattutto in termini di usufruibilità del prodotto, è innegabile (in particolar modo per coloro che, come me, amano i Current 93 più compatti e focalizzati a livello concettuale) una eccessiva discontinuità ed una leggerezza di approccio che possono far nascere qualche disappunto.
Quanto al titolo, non mi chiedete cosa diavolo voglia significare. C'è sicuramente lo zampino di Douglas P. (che, consciamente o meno, è sempre stato un solido punto di riferimento per Tibet). Quello che posso dire è che Goddy (o Noddy che dir si voglia) dovrebbe essere, se non erro, un giocattolo o un pupazzo di un programma televisivo per bambini. Pupazzo che ritroviamo nel booklet interno in un cimitero simpaticamente appollaiato su una croce. Accanto, un giovanissimo Tibet che indossa un inguardabile gilet bianco costellato di teneri disegnini colorati, tanto per rimarcare l'immaginario fanciullesco e spensierato che fa da sfondo all'opera.
Ad aprire le danze è "Benediction", una suggestiva invocazione a cappella del sempre ispirato Ian Read. Segue la similare "Blessing", cantata da Freya Aeswynn, che ritroviamo anche nella successiva "North", un gioellino acustico di appena 41 secondi, che trasuda epicità in ogni nota. Con "Black Sun Bloody Moon" fa finalmente il suo ingresso Tibet, a dir la verità un po' incerto e non ancora perfettamente a suo agio nella nuova dimensione acustica. La seguente "Oh Coal Black Smith" è invece il capolavoro dell'album, che val la pena di essere acquistato solo per la presenza di questo brano: un folk incalzante sorretto dalla inconfondibile chitarra di Pearce e dal celeberrimo controcanto della McDowall. Un testo bellissimo (tratto dalla tradizione popolare inglese) in cui la folle e sgraziata voce di Tibet racconta le vicende fantastiche di un amore non corrisposto. A chiudere il brano, il cupo narrato di Boyd Rice, che funge da collegamento ideale ai toni minacciosi di "Panzer Rune", che rimanda palesemente alle atmosfere della Morte in Giugno: scricchilii di eserciti che avanzano, percussività marziale, un soprano lirico, sfondi wagneriani e le evoluzioni canore di Freya Aeswynn, per un brano che costituisce l'unica memoria dei trascorsi industriali e che certo risente dell'influenza di Pearce.
"Black Flowers Please" è invece l'altro grande classico del repertorio, e ha il pregio di riportarci agli scenari allucinati e fantastici più propriamente tipici della band: la McDowall intona una filastrocca, e subito è raggiunta dal latrato isterico di Tibet, con risultati fra il comico e l'inquietante, ma sicuramente unici ed inconcepibili per qualsiasi altra entità musicale. "The Final Church", aperta dalle parole di Freya Aeswynn, è un'altra folk song che non sfigurerebbe affatto in un album dei Death in June, se non fosse per le voci di Tibet e Balance, che dispensano stecche a volontà. "The Summer of Love" (cover pescata dal repertorio di Blue Oyster Cult!) è invece un rock un po' pasticciato, dove a far danni ci si mette anche la McDowall, che ci regala una interpretazione davvero poco convincente. E' un momento di fiacca: con "(Hey Ho) the Goddy (Oh)" si torna alle filastrocche infantili di "Black Flowers Please", mentre "Beausoleil" è un corale folk caciarone e freakettone che nei suoi quasi nove minuti di durata ci appare veramente troppo lungo e troppo poco incisivo. Scorrono anonime anche "Scarlet Woman" e "The Stair Song", brevi intermezzi che poco aggiungono a quanto accaduto fino ad adesso, mentre a risollevare lo sorti interviene Douglas P. in persona, che si appropinqua al microfono e ci intona la suggestiva ninnananna "Angel" (non altro che la "Hullo Angel" presente in "Wall of Sacrifice" dei Death in June, uscito nel medesimo anno).
Una lettura di Boyd Rice apre la successiva "Since Yesterday", cover degli Strawberry Witchblade (la band di Rose McDowall), altro pregevole gioiellino di folk rilassato e visionario. Seguono i comici versacci di "Valediction", in cui Tibet mostra il suo lato più demenziale, mentre l'onore di chiudere le danze tocca nuovamente a Ian Read, che in "Malediction", altro brano a cappella, riprende il tema di "Benediction" con cui si era aperto l'album.
I 17 brani si susseguono vari e senza un apparente filo logico, fra riuscite folk song ed idiozie esoteriche assortite. A conferire loro omogeneità è la follia, l'attitudine surreale e l'insana ironia che animano, qui più che mai, l'arte di Tibet. Un lavoro riuscito a metà, che probabilente non ha soddisfatto nemmeno lo stesso Tibet, che deciderà in futuro di riprendere il buon materiale qui presente, manipolarlo, riassemblarlo, registrarlo nuovamente e farlo uscire, con risultati assai migliori, in una nuova versione: il riuscito "Crooked Crosses for the Nodding God".
Per tale motivo è consigliabile avvicinarsi piuttosto a questo secondo titolo, anche se naturalmente "Swastikas for Goddy" rimane un album assolutamente da non disdegnare, e che necessariamente deve far parte della collezione di ogni fan dei Current che si rispetti.
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