Se decideste di voler possedere un solo album della creatura di David Tibet, certamente dovreste far vostro questo "Thunder Perfect Mind". Uscito nel 1992, questo lavoro costituisce l'esatto spartiacque fra i vecchi e i nuovi Current 93. E non è un caso che coesistano in questa sede la chitarra di Douglas P. e quella di John Cashmore. Qui Douglas ci saluta definitivamente (questa è la sua ultima comparsata in casa Current), mentre Cashmore celebra il suo folgorante esordio, aprendo di fatto una lunga e proficua collaborazione con il mastermind Tibet: un simbolico passaggio di consegne in cui si viene a sancire definitivamente l'inizio di una nuova era.

In questo episodio cruciale della carriera dei Current 93, che inaugura la felice stagione folk, Tibet decide di lasciarsi alle spalle gli estremismi industriali ed elettronici che avevano contraddistinto gli esordi, approdando alla dimensione più rassicurante di una musica arcana e bucolica in cui il sound si semplifica, si fa meno ostico e maggiormente melodico (ma non di certo commerciale!). Non è un caso che ad aprire le danze sia proprio la voce di Shirley Collins, vecchia gloria della musica folcloristica inglese, fonte d'immensa ispirazione per Tibet in questo album e nella produzione a venire. Una maturazione/evoluzione, questa, che non costituisce affatto un rinnegamento dello spirito che ha animato da sempre la musica nel Nostro: mutata la forma, la sostanza rimane di fatto la stessa, un sofferto rituale volto alla celebrazione dell'apocalisse imminente. E così, fra le diverse gemme di folk acustico, forse le più belle e più celebri mai composte dal gruppo, continuano a coesistere sprazzi di insano sperimentalismo e di disturbante follia esoterica, che vanno a tingere di nero la poetica decadenza di questa opera: proprio il perfetto coagularsi di questi elementi fa di "Thunder Perfect Mind" l'opera più rappresentativa e completa della sterminata discografia dei nostri, un punto di passaggio obbligato per chi vuole penetrare l'essenza della loro musica.

Da un punto di vista lirico, non ci troviamo di fronte ad un concept di carattere mistico-filosofico come il titolo dell'album potrebbe indurci a pensare: "Thunder Perfect Mind" è sì uno dei Codici Nag Hammady, fra i più antichi testi che trattano di Gnosticismo, ma di fatto il discorso si esaurisce nel corso della title-track. Gli altri brani vogliono essere piuttosto dichiarazioni di affetto che Tibet indirizza a persone a lui care, e sembrano trovare il loro trait d'union nell'atmosfera di calore e di estrema intimità che pervade l'intero album. Si può citare, fra le altre, la bellissima "A Song For Douglas After He's Dead" (dedicata all'amico Douglas P. , all'epoca reduce da un profonda crisi depressiva che lo aveva portato ad un passo dal suicidio), e "Hitler as Kalki" (dedicata al padre, che ha combattuto contro Hitler nella seconda guerra mondiale, la cui morte verrà tributata nel 2000 con l'intenso "Sleep has his House"). Per quanto riguarda i contenuti strettamente musicali, ritroviamo Tibet in una insolita veste di menestrello medioevale. Nonostante il Nostro non brilli certo per le eccelse qualità canore, la nuova dimensione melodica non sembra penalizzarlo affatto, ma anzi lo mette in grado di sfruttare a fondo le sue potenzialità, innalzandolo a protagonista di una prova maiuscola: abbandonati gli effetti con cui era abituato a manipolare e deformare la propria voce, le sue vocals si fanno minimali ed evocative, ricche di pathos e di sentimento nel narrare i consueti scenari da fine del mondo. Quello che stupisce è la straordinaria capacità di cambiare registro da un brano all'altro, e così, a momenti più intimi dove è la malinconia a farla da padrona, si alternano momenti più tesi, in cui il singer assume i toni profetici e minacciosi di un predicatore invasato.

Le chitarre acustiche dei già menzionati Pierce e Cashmore costituiscono le vere colonne portanti del nuovo sound. Sound che si va ad arricchire in sede di arrangiamento grazie ai preziosi contributi dei musicisti coinvolti nel progetto. Come non citare, a tal riguardo, le incantevoli melodie del violino di Julie Wood (che troviamo tutt'oggi a fianco di Tibet in sede live), o l'ugola fatata di Rose Mc Dowall (vecchia conoscenza in casa Current) chiamata a supportare il singer con i suoi eterei gorgheggi. Ma c'è spazio anche per le vocals malate dell'amico John Balance (voce dei Coil, scomparso di recente), per la soave arpa di James Malindaine-Lafayette, per il basso distorto di Karl Blake (già con Sol Invictus), per la chitarra elettrica di Nick Saloman e molti altri. Una menzione a parte va all'immancabile Steven Stapleton (mente dei Nurse with Wound), responsabile dell'eccellente lavoro di produzione (i suoni non sono mai stati così puliti e cristallini) e delle frequenti incursioni elettroniche, che vanno a contaminare il corpus acustico delle song senza snaturarle. Tutti questi elementi rendono l'album assai vario e diversificato, un caleidoscopio di luci, colori ed ombre che si vanno ad amalgamare talmente bene fra loro che il risultato ci appare come un unicum coerente e perfettamente compatto.

Fra i momenti più suggestivi non si può non citare il formidabile poker iniziale: "The Descent of Long Satan and Babylon", "A Sadness Song", la già menzionata "A Song Forr Douglas After He's Dead" (forse il più bel pezzo firmato da Tibet, aperto dall'arpa ed impreziosito dai malinconici ricami del violino e del canto soave della Mc Dowall) e "In The Heart Of The Wood And What I Found there" sono song bellissime e di estrema suggestione, che verranno per lungo tempo riproposte dal vivo come veri cavalli di battaglia del loro repertorio. L'inquietante title-track, divisa in due parti, rappresenta invece il loro contro-altare sperimentale: un oscuro rituale in cui la voce tenebrosa di Tibet e l'elettronica di Stapleton concorrono a creare un momento di stasi mistica in perfetto stile Popol Vuh. Da segnalare infine "All The Stars Are Dead Now", una suite di quasi 10 in cui le vocals spiritate ed effettate di Tibet pitturano, in un crescendo di delirio, riverberi ed echi, scenari, visioni e profezie della fine imminente; "Rosy Star Tears from Heaven", una breve parentesi delirante dove Tibet, non senza ironia, riabbraccia l'antico growl, e l'epica "Hitler as Kalki", un impressionante crescendo di 16 minuti in cui spicca un'insolita chitarra orientaleggiante e delle percussioni etniche.

Questi a mio parere i momenti più interessanti di un composito ed estenuante viaggio (siamo vicini agli 80 minuti!), certamente di non facile digestione, in cui è possibile imbattersi in momenti di autentica difficoltà (soprattutto nella parte centrale dell'opera, dominata da folk song, seppur ispirate, un po' troppo simili fra loro, che possono mettere a dura prova la pazienza dell'ascoltatore meglio disposto!), ma che certo vi saprà regalare grandi emozioni, sempre se avrete la volontà e la pazienza di addentravi nella magica atmosfera di questo album.

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