La trilogia che porta il nome di “The Inmost Light” è una delle esperienze più affascinanti del percorso artistico dei Current 93: essa costituisce uno snodo importante nel Tibet-pensiero, che da sempre conferisce forma, sostanza e consistenza alle movenze soniche della sua creatura artistica.
Siamo negli anni novanta, la visione “filosofica” che soggiace ai lavori dei Current 93 ha subito una progressiva evoluzione. Le sfocate visioni catacombali delle prime opere si sono lentamente trasformate in un qualcosa di maggiormente maturo, in un sound più ricco e composito, dietro al quale la ricerca spirituale si è fatta progressivamente più profonda ed articolata. “Of Ruine of some Blazing Starre” del 1993 aveva esplicitato in tutta la loro drammaticità le fratture del travagliato cammino di David Tibet, la cui riflessione da sempre s'impernia attorno ai temi della vita, della morte, e più in generale della precarietà dell'uomo su questo mondo. Ma è con la monumentale opera “The Inmost Light” che si gettano le premesse fondamentali affinché il percorso artistico della Corrente venga in futuro traghettato, non senza difficoltà ed intoppi, dalle Tenebre alla Luce. E se l'arte di David Tibet mantiene i suoi affanni e i suoi elementi di irrequietudine, è dai tre lavori che costituiscono questa trilogia che si sviluppano con maggior vigore i germogli che condurranno all'ultima incarnazione della Corrente, ossia quella che approda al Dio Cristiano con “Hypnagogue”.
Se il perno della trilogia rimane indubbiamente il lavoro centrale, il superbo “All the Pretty Little Horses”, album che può essere preso ed apprezzato anche isolatamente (miracoloso il suo equilibrio formale, la sua fragile sospensione fra luce ed ombre, in bilico fra brillanti folk-song e dark-ambient d'autore), non devono essere dimenticati il lavoro che lo procede e quello che lo segue, e che insieme vanno a completarne il messaggio. “All the Pretty Little Horses” è infatti un lavoro che con il suo “luccichio” inevitabilmente finisce per adombrare due lavori fatti di tenebre: una sorta di introduzione ed una sorta di epilogo che, seppur rappresentino momenti più che validi nella vasta discografia della Corrente (e quindi inarrivabili per il resto del panorama apocalittico), per essere pienamente apprezzati debbono essere necessariamente contestualizzati in una visione più ampia che comprenda almeno i tre atti dell'opera.
Il primo di questi due lavori è “Where the Long Shadows Fall (Beforetheinmostlight)”, che esce nel 1995 e si compone di un'unica traccia: quasi venti minuti in cui la rivoluzione “folk” intrapresa negli anni precedenti sembra essere almeno per un attimo accantonata. Evidentemente ai fini del concept era utile assumere un medium espressivo che guardasse al passato della band (e di questi salti indietro la band ne ha fatti spesso), ripristinando lo spettrale dark-ambient delle origini, ovviamente riletto alla luce della maturità artistica, ma soprattutto esistenziale, nel frattempo raggiunta.
Le liriche ci descrivono una selva oscura e desolata, un paesaggio in cui un'anima perduta vaga nelle dense tenebre di un vuoto spirituale, sospeso fra lo sconcerto di un cammino perso nell'Ignoto e il terrore che deriva dall'approdo inevitabile ad una insensata meta quale è la Morte. Per disegnare un sentiero di questo tipo, Tibet si abbandona ad un timido sussurro e a rantoli spettrali: una preghiera in cui il titolo del brano viene ripetuto con macabra ritualità. A far da contorno, i toni ascetici e le lunghe ombre lasciate dai cupi rintocchi di basso e dal riverbero della chitarra di Michael Cashmore, ombre alle quali si accompagnano, come in una mesta processione, la chitarra di David Kenny e le inquietanti manipolazioni sonore di Steven Stapleton.
Corpus sonoro della composizione è un campionamento del canto salmodiante di Alessandro Moreschi (campionamento tratto dell'unica registrazione mai effettuata da un castrato) che si ripete il loop per tutta la durata della traccia.
Nel finale del brano, che non prevede grandi variazioni, e che quindi può apparire ripetitivo (lo ricordo: l'opera va vista come una parte di un'entità superiore), si fa strada l'oscuro recitato di John Balance che pone la domanda da cui originerà “All the Pretty Little Horses” (“Why We can't just walk away?”), a dimostrazione di come “Where the Long Shadows Fall” debba esser preso non altro che come la funerea introduzione di un'opera che vedrà il suo sviluppo completo nei due lavori successivi: un percorso di tenebre la cui foschia verrà dissolta (in uno dei momenti più magici che la musica mi abbia regalato) dall'arpeggio cristallino della chitarra che apre l'intensa title-track “All the Pretty Little Horses”.
E' solo l'inizio di un viaggio.
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