Lo scorso 13 giugno il pubblico dell’isola di Wight ha assistito alla fantasmatica apparizione dei Curved Air, riunitisi nuovamente dopo 18 anni.
Sorprendentemente i tre musicisti (Sonja Kristina, Darryl Way e Florian Pilkington Miksa – mancava ahimè il grande Francis Monkman) non sono apparsi affatto bolliti ed anzi hanno riproposto interessanti versioni dei loro classici (tra cui una “Back Street Luv Dance Remix” remixata dal dj Elektro Diva) ed alcuni inediti (“Coming Home”, “The Fury”). E’ una buona notizia per gli amanti del Progressive e di questo gruppo in particolare, una band che, in effetti, non ha mai sfondato veramente ma che ha creato con gli anni un buon numero di devoti fans sedotti dal binomio eleganza + sperimentazione che la loro musica ha sempre fornito nel corso del tempo.
Ho preso a pretesto la notizia della reunion per parlare di questo album del 1973 che, pur non essendo un capolavoro, è una piccola gemma sepolta dalle coltri del tempo, finalmente pubblicata su cd nel 2006. Dunque, per fare un po di storia, dopo l’abbandono dei due membri fondatori Way e Monkman, la Kristina ed il bassista Mike Wedgwood (che aveva già suonato nell’album “Phantasmagoria”) decidono di continuare assumendo tre giovani musicisti: Eddy Jobson, violino, piano e sintetizzatori, Gregory Kirby, chitarre e Jim Russel, batteria e percussioni. Il diciassettenne Jobson, in particolare, pare si sia presentato alla band una sera nei camerini dopo un concerto riproducendo fedelmente la non facile partitura al violino del brano “Vivaldi”.
Forse anche a causa della bassa età media del gruppo non appare chiara la direzione che si voleva intraprendere: mentre infatti alcuni brani (“Metamorphosis”, “Elfin Boy”) seguono i dettami progressivi, si avverte altrove (“Purple Speed Queen”, “Easy”, “U.H.F.”, “Two Three Two”) la volontà di avvicinarsi all’Hard Rock (dovuta probabilmente allo stile chitarristico di Kirby, nettamente diverso da quello acido/westcoastiano di Monkman).
Stante questa penalizzante eterogeneità di fondo, i brani notevoli non mancano. “The purple speed queen” (il singolo destinato, nelle intenzioni, a ripetere il successo di “Back Street Luv”) è, come detto, uno dei brani più hard, con due supersonici assoli di Jobson al sintetizzatore e Kirby alla chitarra. Il testo narra la cruda storia di un’eroinomane. “Elfin Boy” è, dopo “Melissa”, la migliore ballata elisabettiana della Kristina, qui alla chitarra acustica accompagnata dal tremolante organo di Jobson. “Easy”: altra ballata, questa volta più sul melodrammatico grazie alla toccante interpretazione della Kristina (che canta insieme a Wedgwood). “Metamorphosis”: dulcis in fundo è un ammirevole composizione del giovane Jobson. Una multiforme suite che passa (come da titolo) attraverso varie sezioni: una classica introduzione al gran piano; una parte cantata dalla Kristina (“We are the children of the midnight…") su un tempo marziale seguita da un ottimo assolo al piano elettrico; una meravigliosa sezione strumentale con alcuni dei più bei passaggi al pianoforte che io abbia mai sentito (almeno in un disco pop-rock) che prelude al ritorno del tema principale, questa volta accompagnato anche da organo e sintetizzatore. Il brano si conclude sorprendentemente con una chiusura in stile Honky Tonk (forse un omaggio di Jobson allo stile preferito da Keith Emerson?).
Tanta grazia progressiva garantirebbe senz’altro all’album quattro stelle, ma l’assoluta mediocrità dei brani restanti (eccetto “Armin” giovantesi di un gran lavoro di Jobson al violino) non mi fa spingere oltre le tre e mezzo. Il che non è comunque male per un album che, oltre a non aver entusiasmato la critica dell’epoca, è stato un clamoroso flop commerciale, decretando la fine del gruppo che non riuscì nemmeno a completare le registrazioni di un secondo album (“Lovechild”, pubblicato solo nel 1990).
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