“In Italia la bicicletta appartiene a pieno titolo al patrimonio artistico nazionale, esattamente come la Gioconda di Leonardo, la cupola di San Pietro o la Divina Commedia. Ci si stupisce che non sia stata inventata da Botticelli, Michelangelo o Raffaello.
In Italia, se per caso dite che la bicicletta non è stata inventata da un italiano, intorno a voi gli sguardi si faranno cupi e sui volti calerà una maschera di tristezza. Ah, se in Italia vi azzardate a dire ad alta voce, in un caffè o per strada, che la bicicletta non è stata inventata da un italiano, così come il cavallo, il cane, l’aquila, i fiori, gli alberi, le nuvole (perché sono stati gli italiani ad aver inventato il cavallo, il cane, l’aquila, i fiori, gli alberi, le nuvole), un lungo brivido percorrerà il dorso della penisola, dalle Alpi all’Etna.”

 
Di un’altra Italia si parla. Di un paese che, se mai è esistito, oggi, certamente, non esiste più. Oggi nessuno si intristisce per niente, figuriamoci per una bici. Erano tempi diversi, la bicicletta era il quasi solo mezzo per qualsiasi spostamento - anche dal passato al futuro, nel suo essere frutto della tecnica, ma che comunque richiede sacrificio e sudore umano per attivarla - tanto che in Italia nel 1946 circolavano tre milioni di bici e 149.000 auto. Tra il 1947 e 1949 Malaparte vive in Francia, rifugiato dove si sentiva meglio, e proprio nel 1949 esce, sulla rivista “Sport Digest”, Le deux visages de l’Italie: Coppi et Bartali.
 
“Ma guardatela! Guardate il suo profilo slanciato, elegante, essenziale, la sua linea perfetta, rigorosa come un teorema di Euclide, semplice e al tempo stesso capricciosa come la crepa incisa dal fulmine nello specchio azzurro di un cielo sereno. Guardate la forma del manubrio, ricurvo come le antenne di un insetto, e quelle due ruote che tanto ricordano il famoso cerchio tracciato con un solo tratto di carboncino, su una pietra, da un piccolo pecoraio di nome Giotto. (Era nato vicino a Firenze, Giotto, e dunque era un compatriota di Bartali). Che cosa significherebbe, la bicicletta, se fosse un geroglifico scolpito in un obelisco egizio? Esprimerebbe il movimento o il riposo? Il fuggire del tempo o l’eternità? Non mi stupirei se significasse l’amore.”
 
Era un domenica quando tutti gli abitanti della Valsesia, nel fresco del primo mattino, s’incamminarono. Il piccolo Curzio Malaparte seguì quella marea di persone e dopo alcune ore di dura marcia arrivarono in cima alla Cremosina, per una corsa che, chiamandosi “Ai monti, ai laghi, al mare”, partiva da Torino per tuffarsi nel mare di Genova. Verso mezzogiorno, ritta sui pedali, si vide arrivare una bianca statua di gesso... “Gerbi! Gerbi!”
La folla era in delirio, tutti gridavano, i più giovani si gettavano all’inseguimento di Gerbi e Petit-Breton per spingerli... gli altri si abbracciavano, si davano pugni alla bocca dello stomaco. Gerbi, dalla sua bicicletta, allungò una mano e sfilò la paglietta italiana che il piccolo Curzio Malaparte usava per proteggersi dal sole e la calcò sulla sua fronte lucente di sudore. Aveva otto anni e insieme al cappello aveva perso il senno... come tutti quelli della sua generazione.
 
“Gino Bartali non è come tutti gli altri. A sei anni non solo aveva, come gli altri, dei sogni e delle visioni: sentiva anche delle “voci”.
Il buon Gino si arrabbia se gli si parla dei suoi buoni rapporti di amicizia, o forse farei meglio a definirli di buon vicinato, con i santi del paradiso. Gino Bartali si arrabbia quando gli si ricorda con discrezione la sua cuginanza con gli angeli del cielo, cosa di cui parla sempre, in ogni momento, a ogni colpo di pedale.”

 
E Curzio Malaparte ama molto Gino Bartali, nativi delle stesse terre e della stessa Italia. Ama tutti i campioni del ciclismo, da quando aveva otto anni, ma ama molto di più Bartali che Coppi. Bartali, come Malaparte, è l’umana conservazione, la reazione moderata alla modernità - ovvero vivere la modernità con dei freni, dei valori, delle ancore affondate nel passato, nella tradizione, nel pregiudizio rehberghiano ed è così che Bartali può pedalare un mezzo frutto della tecnica ringraziando la Madonna senza troppi timori. Coppi è il progresso, è il nuovo, è il motore. Coppi non ha sangue nelle vene. No, ha benzina. Coppi non prega la Madonna prima delle gare. No, prima delle gare Coppi olia il suo corpo-motore. Coppi è un voltairiano inconsapevole.
E c’è qualcosa di filosofico in questa rivalità, che trascende le vittorie e il ciclismo, quel qualcosa che non può sfuggire all’occhio di Malaparte, osservatore vivace, grande uomo con tanto di cuore e cervello... non solo pelle.

"Coppi e Bartali", edito da Adelphi, lo si legge in un'ora, ed è un buon modo per ricordarsi di quelle storie udite da bambini, di quei giri d’Italia polverosi che qualcun altro aveva ascoltato anni prima dalla radio di chissà chi, poggiata a terra, vicino alla presa della corrente, in una qualche officina che profumava di grasso e motore, solo per poterveli raccontare. Un buon modo per interrogarsi, anche, su cosa non avremo mai più e su cosa non tornerà.
 
“La bicicletta è come una donna! ha detto una volta Serse Coppi, il fratello di Fausto. Si, ma per quale ragione dovrebbero odiarsi? Non corrono mica sulla stessa bicicletta.”

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