Introduzione:
Ho la sensazione di essere l’unico italiano effettivo possessore di tutti e cinque gli album pubblicati da questo gruppo inglese (con iniziali, corposi addentellati canadesi), costituitosi a metà degli anni ottanta e tuttora operativo, avendo nel suo cammino attraversato problematiche, lutti, incertezze e lunghissime pause tra un’uscita discografica e l’altra.
E per cominciare con questo quinto e attualmente ultimo lavoro datato 2015… ‘mazza che copertina brutta! Un tizio coperto di tubi della stufa che esce dalla piscina di un albergo e, in altra foto interna alla confezione, va a stendersi su di un lettino prendisole. Nessun possibile riferimento figurato, che so, al nome del gruppo, al genere musicale, a qualcuna delle liriche. Niente, boh!
Contesto:
A parte questo è evidente come ai Cutting Crew la ruota della fortuna stia girando di nuovo nel giusto verso ultimamente: dopo uno spartanissimo quarto album, poveramente prodotto e insufficientemente distribuito, questa pubblicazione odora invece di budget più che decente a disposizione, a cominciare dalla confezione e poi continuare con produzione, suoni, quantità di musicisti coinvolti, puntigliose note di copertina.
Le prime tre uscite dei Cutting Crew erano state grandi, grandissime... specialmente le prime due. Particolarmente la prima, a mio giudizio miglior disco del 1986 (annata peraltro oltremodo asfittica per il rock, fra le peggiori in assoluto).
Punti di forza e lacune:
Di buono c’è che il lavoro è professionalissimo, suonato e arrangiato con estremo puntiglio e abilità, prodotto da dio, vario, non stancante.
Di armi a disposizione nei Cutting Crew ad inizio carriera ve n’erano molte: a cominciare dal talento del leader Nick Van Eede a proposito sia di voce, evocativa e romantica, che di qualità compositive. Per continuare con l’eccellente chitarrista che l’affiancava, il povero Kevin MacMichael venuto a mancare quasi vent’anni fa. Un tizio talmente pieno di musicalità, sintesi ed inventiva che i suoi fraseggi chitarristici rubavano costantemente l’attenzione e rischiavano sovente di metter in secondo piano l’augusta voce del partner e tutto quel proscenio di tastiere dagli ottimi suoni che infarciva i pezzi.
Si distingueva assai anche la sezione ritmica primigenea (quella dei primi due dischi ottantiani), pur in un periodo difficoltoso per i loro strumenti, data la moda di allora che imponeva batterie finte e bassi gommosi. Specie il batterista Frosty Beedle era un signor musicista, creativo e potente.
Non è rimasto più niente oggi: MacMichael è morto e il gruppo da tempo coincide esattamente col suo frontman, il quale per sopra mercato ha cambiato il suo modo di cantare, banalizzandolo… uffa!
Vertici dell’album:
“Looking for a Friend” ricorda molto i Little Feat per quella ritmica a doppia chitarra, una acustica larga e a tutto braccio e l’altra elettrica, stretta e funkeggiante. Ancora fiati qua e là, un bel break strumentale al centro, molta classe… proprio come succede spesso e volentieri agli stupendi Little Feat.
“Berlin in Winter” parte col piano a coda e la voce impastata ed enfatica proprio come è uso fare spesso e volentieri Bruce Springsteen. Tutto ben fatto, tutto soprassedibile.
Con “San Ferian” si sposa in toto il country rock: acustiche e mandolino, tamburo basso al posto della cassa, cori da nottata intorno al fuoco e sotto le stelle. La più semplice ed una delle migliori.
In “As Far As I Can See” van Eede si ricorda per una volta di quel suo inimitabile timbro roco e sexy, tanto da far drizzare a sufficienza le orecchie ai suoi vecchi estimatori. Ma poi la melodia, pur con buoni momenti (quando i vocals si distendono e vanno su di potenza, a concludere il ritornello) non riesce ad essere sufficientemente memorabile. Bello ed elegante invece l’assolo di chitarra elettrica, nonché il pianoforte squisito che lega il tutto.
Come ogni tanto accade, il brano più riuscito è l’ultimo in scaletta. S’intitola “(She Just Happened To Be) Beautiful”: inizia acustico e raccolto, solo chitarra e toccante voce. Poi arrivano il sax l’organo e qualcos’altro, ma resta fondamentalmente un episodio focalizzato sul solo leader dei Cutting Crew, e finalmente c'è copiosa emozione e voglia di risentirla subito.
Il resto:
L’apripista “Till the Money Runs Out” è Tom Petty sputato, clamorosamente: un country rock gonfiato dai fiati, con quel tipo di melodia telefonata, che già si sa dove va a parare, di genere Americana, a me decisamente insignificante.
“Kept On Lovin’ You” è un rhythm & blues lento e sapiente, indistinguibile da cento altri della sua specie, capitati in carriera a gente come Billy Joel, Joe Cocker, oppure Tom Jones, o anche i Train, va’. Insomma, musica ultra americana prodotta a Londra, alle Barbados e in Norvegia… perché la musica non è quella del luogo in cui sei nato e vivi, ma quella che ha conquistato il tuo cuore. Però è strano ascoltare la conferma di questa realtà dai Cutting Crew, dopo sei lustri di carriera dedicata a ben altre cose.
Mancava (detto con ironia) il pezzo confidenziale e un po’ da crooner, ed eccolo: “Already Gone”. Da qualche parte fra gli Eagles quando la voce solista la faceva Glenn Frey, l’Elvis Presley meno bietolone, e pure Roy Orbison. Batteria colle spazzole, malinconiche sospensioni del ritmo ogni tanto… un andazzo quasi messicano. Più che mai nessuna traccia di Inghilterra in queste musiche! Curiosamente, termina con una breve coda calypso che entra in assolvenza, in stile jam session. Sicuramente quest’ultima un parto estemporaneo delle sessioni di registrazione in studio.
“Biggest Mistake of My Life” è un gaio up-tempo con cori gospel. Voce “sudista” di Van Eede, che fa cadere il pensiero di nuovo sul povero Tom Petty. La solita messe di fiati qui e là, specialmente nel finale affollato e carico di chiacchiere e feedback.
“Only for You” è in buona parte confidenziale, con la voce del cantante particolarmente pacata e malinconica, circondata da chitarre tremolanti e psichedeliche. Come tutto il resto, valida ma NON memorabile, come una canzone importante invece dovrebbe sempre essere.
Giudizio finale:
Sorprendente disco adulto e super yankee di un gruppo fino a qui formalmente appartenente al pop rock “giovanile” britannico fine anni ottanta; perfetti suoni, massima qualità sonora, produzione e confezione inappuntabile, epperò atmosfera “adulta” troppo benpensante, diciamo così, con una serie di stereotipi americani richiamati di volta in volta. L’emissione vocale del leader, pur ancora notevole, ha perso per strada le sue splendide peculiarità; non si sa se volontariamente o malauguratamente, ma il risultato è quello di stendere un ulteriore velo di anonimato su queste musiche, già di per se pervase da esercizi di stile più che da ispirazione autonoma.
Tre stelle e mezzo, perché son tempi duri per il rock e nel decennio appena passato non è che di dischi migliori di questo ne abbia intercettati a bizzeffe. A confronto coi primi due album Cutting Crew degli anni ottanta, entrambi da cinque stelle, ne meriterebbe non più di due.
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