I decessi a distanza ravvicinata dei due membri storici Sean Reinert (aveva comunque già lasciato la band qualche anno prima) e Sean Malone non fermano i Cynic. Paul Masvidal rimale l’unico superstite del nucleo originario e porta avanti il marchio con orgoglio. Pensavamo fosse finita ed invece è arrivata questa grossa sorpresa intitolata “Ascension Codes”. Non so quanto potessero essere alte le aspettative, dopo sette anni da quel “Kindly Bent to Free Us” che appariva piuttosto privo di mordente. Invece ci troviamo di fronte ad un sound ridisegnato con intelligenza.

Chiaro fin dall’inizio che bisogna assolutamente dimenticarsi di quel capolavoro che fu “Focus”, un disco sorprendentemente importante per il metal estremo e tecnico. Il sound è infatti piuttosto asciutto, non sfodera la grinta che ci si aspetterebbe, probabilmente non si può nemmeno definire metal, le sonorità sono generalmente più soft ma non appaiono spente come accadeva invece nell’album del 2014; anche perché l’aspetto aggressivo viene ben compensato da quello tecnico e virtuosistico, un marchio di fabbrica della band originaria della Florida che qui si manifesta ancora una volta in misura notevole. Alla fine l’assenza dei due membri storici non si sente più di tanto perché i sostituti Matt Lynch e Dave Mackay fanno un ottimo lavoro, specialmente il batterista (il bassista invece rimane più nell’ombra); quel che manca è, oltre alla vena death, anche quell’impronta fusion che caratterizzò il capolavoro datato 1993 ma giustamente bisogna andare avanti.

Tuttavia le caratteristiche tecniche erano già ampiamente nel DNA del marchio Cynic, l’elemento che rappresenta una novità e che suscita curiosità è un altro. L’album infatti è caratterizzato da un’evidente atmosfera robotica e spaziale che non è certo familiare alla band. Qua e là si fa un intelligente uso di sintetizzatori che sembrano creare davvero un’atmosfera fantascientifica. Suoni che richiamano fischi di galassie lontane, loop di calcolatori e computer di bordo, sembra davvero di stare a bordo di una navicella spaziale, forse non sarà il disco da missione spaziale perfetto ma se degli astronauti mi chiedessero qualche consiglio su quali dischi portare a bordo questo ci sarebbe senz’altro, assieme a quelli di Star One (qualcuno direbbe i Pink Floyd ma sembrerebbe troppo scontato, tra l’altro li ha già scelti Samantha Cristoforetti).

Ad accentuare quest’atmosfera ci pensano i brevi intermezzi che intervengono fra un brano e l’altro; in questi si raggiunge il massimo del mood fantascientifico ma presentano un difetto di fondo: sono troppo uguali fra loro, si potrebbero benissimo riprodurre a caso senza riconoscerli, senza distinguerli l’uno dall’altro. Dispiace che non si siano impegnati per elaborarli meglio, perché avrebbero potuto rendere il disco ancora migliore e più variegato di quanto già non lo sia.

Resta di fatto che il disco è una piacevole sorpresa, il disco che non ti aspettavi dalla band che pensavi non avesse più niente da dire, il disco che invece reinventa la band e offre qualche speranza per un eventuale domani.

Carico i commenti...  con calma