L'hard rock è quanto di più statico e monocorde esista tra i generi musicali: i dischi trapassano il tempo senza perdere un grammo di attualità, non tanto per virtù intrinseca, quanto per incapacità di rinnovamento del genere. Prendete Danko Jones - un esempio, i fan non si incazzino subito - e mettetelo a confronto con un qualsiasi gruppo hard degli anni 80, e giocate a trovare le differenze.
Dai diamanti non nasce niente, e anche dall'hard rock non nasce nulla se non l'hard rock. Detto questo, veniamo ai nostri. Fulgido esempio di come cambiando latitudine, il prodotto non cambi, pur restando oltremodo affascinante. I quattro in questione sono danesi, e operano a cavallo tra gli 80 e i 90, sebbene ci siano ancora oggi. Li citiamo non per meriti universali, ma per due motivi: uno, il fatto di fare hard rock in una terra, la Scandinavia, che di lì a pochi anni si sarebbe votata anima e culo al death, già è di per sè indice di coraggio. In questo senso, i nostri sono in controtendenza, e a me piace da morire chi ha il coraggio di andare contro, anche se in questo caso andare contro vuol dire semplicemente star fermi.
Secondo, lo stile: e qui devo dire che i nostri hanno qualcosa da dire, mettendo cioè un asterisco in salsa danese alla voce hard rock. Qualcosa che gli è valso riconoscimento internazionale, planetario, il disco ha venduto tantissimo, tanto da rincoglionirli. Comunque, hard rock solido, granitico, essenziale, senza nessun tipo di virtuosismo, ma frutto di una coralità fatta di una chitarra hardrockianamente ineccepibile, debitrice della scuola Young, di un basso suonato incredibilmente a due corde (bastano quelle o so suonare solo quelle, l'amletica questione), di una batteria senza acuti, ma semplice veicolo di potenza e cadenza, e di una voce che sì, si fa davvero ricordare, tirata quel che serve, senza sbavature ed eccessi. Una bella formuletta che propone dieci canzoni prodotte con lo stampo (hard rock puro quindi) ma ognuna valida e accattivante: dalla pluridecorata Sleeping my day away a ZCMI, da Rim of hell a Overmuch, il disco si fa ascoltare con leggerezza e soavità, senza pensieri di nessun tipo, scorre, insomma, e questo è un gran pregio: se il disco scorre e tu non pensi durante, quasi annullando la funzione essenziale dell'ascolto con le orecchie ma aprendo quello dell'inconscio, allora si è in presenza di ottimo lavoro. Per cui, se hai finito di ascoltare i Mayhem e ti senti un po' appesantito, dopo metti su questo ed è come un digestivo.
Un nota per un futuribile dibattito: io, personalissimamente, nella struttura di alcune loro canzoni, fatta di pianissimo sulla strofa sussurrata da basso e batteria con chitarre appena accennate e poi di ritornello esplosivo, ci vedo un che di grunge. Sarà troppo?
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