Al lancio, nel lontano 2005, ho subito pensato che Human After All fosse una gigantesca trollata, a dire il vero nenche troppo divertente, con brani prototipali probabilmente scartati da Discovery e basati su un'idea di 10 secondi loopata per 5 minuti. Era anche un disco che, nonostante la monotonia inaudita, riusciva anche a essere breve. Vediamo se dopo 17 anni le cose sono cambiate e possano esserci dei margini di rivalutazione. Questo perché i Daft Punk per me erano iniziati e quasi finiti con lo splendido Homework, con una inaspettata ripresa artistica nella sorprendente colonna sonora di Tron Legacy. D'altronde anche Homework risultava non poco provocatorio a tratti e sempre basato su campionamenti e ripetizioni, linguaggio comunque non estraneo a molte produzioni elettroniche. In questo caso però parliamo di una monotonia diversa, probabilmente programmatica, poiché l'album sembra portare avanti un vero e proprio concept di disumanizzazione della musica, con una esecuzione estremamente meccanica e ostinatamente restia a qualsiasi forma di progressione. Produco musica elettronica da anni e conosco qualche trucchetto, riesco a vedere l'intelaiatura di un brano al di la' delle emozioni che può alimentare, ma anche un orecchio non esperto o un cervello non proprio musicalmente analitico si accorge che siamo di fronte a dieci brani basati su un loop ripetuto con disturbante ripetitività, con variazioni minime (quando ci sono).

Questo design porta a una rapida degradazione dell'esperienza di ascolto, si sopravvive con la title track grazie a un buon risultato del vocoder, ma da "Robot Rock" comincia il disagio: dopo una breve variazione il brano prosegue con una linea sospesa all'infinito nel tempo, come se il produttore stia testando un canale loopato nel suo DAV, per sentire se tutti i suoni sono a posto. L'ascolto non risulta indolore neanche oggi, soprattutto considerando che il brano ha grandi potenzialità nel suo attacco iniziale, e soprattutto, nonostante ricordi come detto gli asset di Discovery, suona straordinariamente come qualcosa di nuovo e vecchio combinati. "Steam Machine" prosegue con lo stesso spirito, mentre in "Make Love" non c'è neanche l'interesse di inserire minime variazioni per distogliere dal fatto di essere di fronte a un sample ripretuto per oltre tre minuti. Questa siccità sistematica sembra funzionare per davvero solo con "The Brainwasher", il brano più indisponente del disco, che parte con una spassosa citazione ai Black Sabbath per poi proseguire come un malware nel padiglione auricolare, è però l'unico a tenere davvero viva l'attenzione fino alla fine. "Emotion" chiude l'opera ribadendone lo sfacciato sarcasmo sin dal titolo, anche in questo caso è poco più di un'idea ripetuta all'infinito, con minime variazioni e nessuno sviluppo strutturale.

Da quanto letto potreste pensare che non sia particolarmente soddisfatto neanche oggi, in realtà HAA fu un esperimento forse dall'utilità discutibile, ma con un suo fascino. Nessuno dei dieci brani può essere definito brutto, anche oggi, e lo sceglierei al posto di tutto Random Access Memory. Aveva inoltre l'encomiabile pregio di presentare un suono a suo modo fresco e originale, senza le pretese forse ruffianelle di Discovery (ammetto che ai tempi mi piaceva), un disco che, nonostante risultasse inevitabile, esponeva i produttori francesi a una pericolosa deriva mainstream che questo suo gemello perverso cerca di correggerre. Ciò non implica che HAA possa essere preso troppo sul serio nella sua progettazione, l'ambiguità tra un capolavoro dell'essenzialità alienante e una stupidaggine fatta in fretta e furia per alimentare uno sfacciato narcisismo verte un po' troppo verso la seconda.

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