I Daft Punk tornano tre anni dopo la soundtrack "Tron: Legacy", e dall'ultimo lavoro ufficiale "Human After All", album che fece storcere il naso ad alcuni ma che allargarò la fanbase dei due robot grazie al singolo mondiale "Technologic". Nel 2013 tornano con "Random Access Memories", un disco che torna ancora una volta a far parlare e portare non poche polemiche. C'è chi ha contestato il fatto che i Daft Punk avessero del tutto perso il proprio smalto, chi accusa il disco di essere ultra pomposo, pretenzioso, retorico e privo di idee. Dal mio personale punto di vista i Daft Punk in questo disco ancora una volta invece mantengono coerente il loro messaggio; infatti da "Homework" fino a questo ultimo lavoro il duo parigino non ha cambiato davvero nulla del proprio stile, semplicemente si sono EVOLUTI. Ed è una cosa del tutto comprensibile, al di là del fatto che qualcuno possa non accettare la svolta, ma questo è un problema dei fan in fin dei conti, non del gruppo.

"Random Access Memories" raccoglie tutto ciò che è stato dettato fino ad ora dai loro lavori, in particolare "Discovery" per quanto riguarda produzioni più elaborate con sonorità retro e citazioni continue al loro immaginario preferito. Il disco infatti contiene dei veri e propri viaggi musicali, su tutti "Touch": 8 minuti in cui i Daft Punk creano una sorta di suite cinematografica, con la partecipazione di Paul Williams, noto cantante/autore e attore di "Il fantasma del palcoscenico", film che ha ispirato entrambi i musicisti, e non è un caso che ad una certa il pezzo cambi rotta: parte lenta, prosegue con un ritmo honky tonk e ci catapultiamo in questa sala da ballo di un clima festaiolo e gioioso, fino all'entrata di un grazioso coro di bambini, intervallato da una successione di archi ispirati a "A day in the life". Il fatto che abbia scomodato i Beatles non è scontato. L'episodio migliore però è senza dubbio "Giorgio by Moroder", con la partecipazione di un dei loro maestri della discomusic (e non solo) in un'altra piccola opera: synth anni '80, accompagnamenti jazz nella parte centrale, un'intermezzo arcestrale e un finale esplosivo in cui entra una batteria e una chitarra in chiave rock, fino al concludersi con il click rimbalzante del metronomo da dove è stato concepito il sound, come una sorta di ritorno all'origine. Un capolavoro. Il terzo episodio davvero splendido è "Contact": un'introduzione da enterprise spaziale con tanto di voce del computer di bordo, e poi quell'organo accompagnato da una batteria a lanciare l'ascoltatore in un vero viaggio cosmico: strepitoso il finale, un vortice in cui entriamo in una tempesta di asteroidi per sfrecciare a tutta velocità oltre i confini dello spazio/tempo. Una esperienza sonora da montagna russa.

Il disco chiaramente cerca di guardare anche sul reparto hit, e quelle che ci sono fanno il loro lavoro al meglio: "Get lucky", pezzo criticato da molti per la sua apparente banalità, è in verità un brano molto divertente: partecipazione di Pharrell Williams alla voce e di Nile Rodgers alla chitarra (quest'ultimo di certo non il primo che passa) e "Instant crush" con Julian Casablancas che, pur essendo un brano ascoltabile, sfigura in mezzo ai capolavori che ho descritto poco fa. Ammetto che il passaggio radiofonico di queste due hit possa averle fatte odiare, ma restano indubbiamente due pezzi ben costruiti nel loro scopo. Come non deliziarci proseguendo con "Lose yourself to dance", una scarica di positivà magnetica basata su di un ritmo funky gustoso e trascinante, così come la delicata ed elegante "The game of love", un misto per certi versi fra "Something about us" e "Make love", pur non apprezzando particolarmente l'effetto vocale utilizzato, a mio avviso troppo pasticciato e nauseante per certi versi; stessa cosa per "Within", costruita su di un meraviglioso pianoforte da film, ma che si perde proprio nella tolleranza della voce. Godibili brani come "Beyond", con un intro di orchestra che sembra "Ritorno al futuro", e "Motherboard" con il suo intermezzo da orgia di synth spaziali, e particolarmente piacevole "Do it right" con i suoi freschissimi cori, a creare una linea vocale semplice ma dannatamente orecchiabile. Ci sono poi anche episodi a mio avviso minori, come "Give life back to music" e "Fragments of time", chiaramente ben studiate ma poco memorabili. Tutto sommato, sebbene non tutte le tracce siano allo stesso livello, il disco scorre che è un piacere: intrattiene, diverte, sbalordisce, emoziona, fa ballare, e il tutto con una cura maniacale in ogni singolo loop all'interno delle produzioni.

I Daft Punk sorprendono ancora, con uno dei loro dischi più criticati per il distacco musicale, seppure mantengano sempre coerente la propria identità, sviluppando concettualmente il loro stile e dimostrando di essere sempre sulla cresta dell'onda, mantenendo il loro marchio di fabbrica intatto e una qualità al solito impeccabile. Buon viaggio!

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