Sembra un dito nel di dietro, e per certi versi lo è. Ma alla fine viene quasi da dire che First Man traccia un nuovo modo di raccontare lo spazio, trasforma l'epopea spaziale in un dramma, una tragedia interiore nel cuore di chi si prende la responsabilità di fare quella cosa, e dei suoi familiari. Ma il rinnovamento è anche nello stile, con Chazelle che si dimostra regista di grana finissima, capace di evitare quasi tutti i cliché estetici di questo genere, molto codificato. Inquadrature nuove, diverse, che aprono voragini nei pensieri e nelle azioni che questi uomini forti (e fragilissimi) si trovano a compiere. E poi musiche che danzano con una leggiadria che inquieta, per la sua dissonanza con quanto scorre davanti agli occhi. Non è il valzer di Odissea nello spazio, ma musiche ancora più sospese e dolci, fuori dallo spazio tempo, che nella loro squisitezza inquadrano tutta la contraddizione e la mancanza di senso in quanto si sta facendo.
Quando Neil approda sulla luna, da una parte c'è una voragine di senso, perché il gesto in sé viene svuotato di significato, agli occhi dell'astronauta. Quello che compie resta un piccolo passo per un uomo, e quell'uomo capta la mancanza di significato di quell'epopea infinita per poter mettere una bandierina su una terra infeconda. Dall'altra, nella sua mente scorrono le immagini della sua vita con la figlia. L'uomo è irriducibile a se stesso, dentro non cambia mai davvero, e Neil Armstrong non è sicuramente un grande uomo, che si discosti dalla norma. È, in ogni caso, qualcosa di diverso rispetto a ciò che lo Stato vorrebbe che fosse (ma nemmeno troppo convintamente). Allo Stato in realtà frega poco di chi compie quel gesto, purché si faccia e in fretta, perché i costi sono elevati e i cittadini sbuffano.
E allora un uomo che simpatico non è come l'Armstrong di Gosling, simpatico quasi lo diventa, di fronte all'orizzonte limitatissimo dei ragionamenti che lo circondano. L'individualismo è universale e riconosciuto dalle masse come legittimo, tant'è che Neil diventa quasi una figura aliena in società e nella sua famiglia, perché inizia a ragionare su un livello e per un fine un po' più alto. Eppure quando è lassù gli torna alla mente solo ciò che davvero gli sta a cuore, la sua figlioletta. Mentre sulla terra, prima di partire, sembra quasi alienato e ormai incapace di vivere. Uomo lunare sulla terra, torna a essere terrestre sulla luna.
Un film algido, antipatico per lunghi tratti, spigoloso, che fa molto per farsi odiare, nella fase finale rivela tutta la sua bellezza austera. Un viaggio lirico nelle motivazioni di uomini che hanno fatto lo storia senza necessariamente essere eroi, ma perché incaricati dallo Stato (uno Stato ipocrita) a compiere un gesto simbolico, da spendere politicamente. Dietro a quell'approdo però c'è tanto dolore, tanta angoscia, tanta morte e tante famiglie a pezzi. Lo Stato non viene troppo attaccato perché la sua perversione è ovvia, sempre sottintesa, e quindi non merita particolare spazio.
Nell'intreccio di motivazioni e uomini, Neil e il suo rigore si possono esprimere e arrivare a un compimento grazie a un progetto che di fatto è un puro capriccio da Guerra Fredda. Autenticità e ipocrisia si compenetrano e alla fine in risultato rischia di essere imperscrutabile. Invece è ben chiaro, per chi guarda First Man con la malizia necessaria. Anche nelle imprese di Stato, c'è tanto sacrificio di singoli uomini che periscono e non verranno ricordati, e le angosce di altri che invece verranno ricordati, perché la sorte sceglie i suoi uomini simbolo, che non sono migliori dei compagni, solo più fortunati, forse un po' più determinati.
L'uomo epico degli anni Sessanta è tutt'altro che epico. È un burattino sfruttato a fini propagandistici, svuotato dal terrore, che nel suo viaggio sanziona la totale insensatezza dell'impresa compiuta, mantenendo i suoi pensieri su un piano puramente intimista, dando all'epopea un significato lirico che solo lui conosce. Mentre lo Stato inneggia a uno stupido traguardo, osteggiato dal regista che si rifiuti di mostrarne le celebrazioni.
La visione di Chazelle è glaciale, nera, e richiama un poco i personaggi di Eastwood, gli eroi normali che sparano e guidano aerei. Qui si porta un razzo sulla luna, poco cambia. C'è l'uomo schiacciato dalle esigenze della ragione di Stato. Rispetto a Eastwood qui la lettura dei fatti si fa ancor più sclerotica, divaricata, alienata. E bisogna dirlo, anche meno icastica. Neil entra quasi in trance, dà di matto, perde la capacità di comunicare con la sua famiglia, per un'angoscia che non ha il suo riscatto, perché Neil si rivela essere soltanto uno strumento per la propaganda nazionale. Eppure lui resta un uomo, con le sue battaglie quotidiane, e Chazelle intende nobilitarlo nella sua singolarità, nella sua normalità anche antipatica. Nella sua sconfitta e nella sua pochezza.
Questo realismo estremo è quasi disorientante, e non dubito che molti faticheranno ad apprezzare il film, oppure lo apprezzeranno senza capirlo, come celebrazione di un'impresa, quando in realtà è tutt'altro. E viene da dire che il fraintendimento è quasi voluto, per non inimicarsi troppo il pubblico americano. La volontà di sfatare il mito della tecnologia, con viti da stringere, incendi, spazi angusti, comandi che non rispondono può funzionare sia come sottolineatura ironica, per smitizzare le spedizioni nello spazio, sia come elemento d'elogio della pervicacia americana, che ha grandi mezzi ma sa anche fare i conti con i problemi pratici di una tecnologia ancora acerba. Questa duplicità fa sicuramente leva sull'incoscienza del pubblico, ma non va sottovalutata. Il rifiuto del trionfo resta tuttavia evidente a uno sguardo che vuole vedere.
Ma credo e temo che Chazelle non abbia avuto abbastanza coraggio per dire la sua fino in fondo e quindi tante questioni sono sviluppate soprattutto nelle nostre teste pensanti mentre guardiamo sequenze neutre, oggettive, che lanciano tante ombre ma non scandiscono (quasi) mai nitidamente un j'accuse. Un po' più di coglioni, Damien!
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