Dal mio blog.

Sono un grande estimatore di Whiplash. Ora sarebbe davvero facile dire che La La Land è un film molto sopravvalutato, un film che ha ricevuto moltissime candidature agli Oscar perché tecnicamente ineccepibile ma artisticamente non così sbalorditivo. E infatti non lo dirò: mi è piaciuto, sono uscito dalla sala canticchiando il motivetto principale, ho riso e mi sono chiesto molte volte dove stesse andando a parare Chazelle. Alla fine la risposta è arrivata, più o meno, e si è evidenziata per la sua strettissima continuità con l’argomento di Whiplash. La La Land è la versione civile, romantica, borghese di Whiplash, che era qualcosa di selvaggio, nevrotico, adolescenziale.

Se vogliamo, il rapporto tra percorso artistico, musicale ma questa volta non solo, e vita viene snocciolato anche meglio in questo lavoro; c’è maggiore spazio per questi temi, ma anche meno freschezza. E allora i problemi amorosi che sorgono tra i due protagonisti sono davvero poco intriganti, mentre le lacerazioni portate dalla musica nella vita del giovane batterista del precedente film erano più spendibili a livello cinematografico. Le conseguenze invece sono scandagliate meglio qui: seguire due percorsi come quelli di Mia e Seb dà maggiore ricchezza da questo punto di vista. La necessità di sacrificare un po’ di se stessi per l’arte ha il suo suggello in una delle ultime sequenze, quando Seb immagina come sarebbe andato tutto se non ci fosse stato alcun desiderio di fare grandi cose nella musica e nella recitazione. Con questo sigillo prezioso Chazelle completa un po’ il suo discorso su questo argomento. E lo fa davvero bene, com’è nel suo stile, senza spiegare l’ovvio ma anche lasciano sempre qualcosa di non detto, chiedendo allo spettatore di rifletterci un poco.

La La Land è un film fatto per piacere, innegabilmente. Questo può essere un limite, ma bisogna riconoscere un gran mestiere nel lavoro di sarti, scenografi e tecnici vari. I colori, i vestiti, le luci, gli spazi scenici: è tutta una sinfonia, un caleidoscopio. Non c’è però un vero taglio peculiare a questa prerogativa, come può esserci nei film di Wes Anderson. Qui si punta semplicemente a inebriare il pubblico, con una sommatoria lineare di cose belle. E tra queste, come non menzionare i due protagonisti, Ryan Gosling ed Emma Stone: due calamite che spostano l’attenzione ed insieme alle canzoni non fanno notare invece una certa rarefazione nella struttura della vicenda.

La storia è semplicissima, ma non è quello il problema. Anzi, i salti temporali e la stilizzazione sono scelte apprezzabili, non ci interessa che sia tutto contiguo in un musical e in generale al cinema, anzi. Il problema è semmai come vengono riempiti questi spazi lasciati liberi dalle maglie larghe della diegesi. E si arriva dunque a parlare di canzoni e coreografie, che non sempre convincono. O meglio, le canzoni diegetiche, presenti nella vicenda perché cantate e suonate davvero nello svolgersi degli eventi, beh quelle sono ottime. Dai pezzi jazz alle canzoni di Seb con la band, dai concertini a bordo piscina in feste private fino alle sonate di pianobar degli inizi. Meno convincenti sono le canzoni proprio da musical, quelle metanarrative, che si inseriscono nell’ordito realistico e lo sospendono per un po’. Alcune sono belle, sicuramente, ma altre sembrano solo allungare il brodo con sonorità morbide e prive di spunti vivaci. Nel complesso ci sono tanti momenti piacevoli, ma siamo ben distanti dall’eccellenza.

Qualcosa non torna nemmeno nei dialoghi e nella costruzione delle narrazioni di secondo grado: uno sceneggiatore si dimostra preparato quando sa scrivere anche spezzoni di monologhi teatrali interni al suo film, oppure raccontare un’audizione senza usare necessariamente una canzone. I testi delle canzoni, anche quelli, non mi hanno colpito particolarmente, ma almeno non sono stati doppiati.

6.5/10

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