Ci sono album che devono essere ascoltati in certe circostanze, in momenti precisi, in poche parole quando ne senti il bisogno. Spesso c'è un filo che collega l'ascoltatore all'artista soprattutto se l'artista si chiama Damien Rice, e questo filo è la necessità, la stessa che accomuna chi sente il bisogno di ascoltare, e chi sente il bisogno di cantare. Cantare e suonare, senza troppi fronzoli o tecnicismi. Questo è "9".
Qualcuno, quasi duemila anni fa, lo avrebbbe chiamato "Labor Limae". Ecco allora che "9" non è "O", e per il semplice motivo che Rice si è finalmente accorto che con le stesse potenzialità e le stesse capacità e magari uno studio di registrazione meno improvvisato avrebbe potuto fare qualcosa di più curato. Lo stile, s'intenda, rimane lo stesso. Rice parla di libertà, di esistenza, d'amore, di rabbia e continua a farlo a suo modo.
L'appoggio, sottile ed elegante, della cantante irlandese Lisa Hannigan è la scelta che valorizza ulteriormente "9". Non ci vuole troppo a capirlo. Per la precisione bastano i primi quattro minuti scarsi di "9 Crimes". La voce della cantante si presenta come farebbe una attore da dietro il sipario, ad inizio spettacolo, mettendo piede in un palco appena illuminato con in sottofondo un flebile pianoforte e dei rari e vibranti colpi di percussione.
Poi entra l'attore principale: Rice, e le voci si intrecciano, si confondono. In "Dogs" addirittura
si uniscono, fanno l'amore, fino ad un vero e proprio amplesso melodico e allora ti dimentichi in
breve tempo dello sfogo precedente, quello di "Rootless Tree", quello in cui il ritornello rabbioso sembra assumere un tono rock (Fuck you/ fuck you/ fuck you/ And all we've been through) e poco importa se con "Me, My Yoke And I" questo rock, ora puramente raggiunto, rischia di suonare scontato, di ripercorrere strade già solcate da gente come Ben Harper, l'impatto e il risultato sono comunque tutt'altro che banali.
La prima metà del disco scorre via che è un piacere. C'è di tutto, presentato nella sua solita semplicità. C'è la ballata amorosa "Animals Were Gone" (At night I trip without you/ and hope I don't wake up/'Cause waking up without you/ is like drinking from an empty cup) ed "Elephant", la perla dell'album, un crescendo che non lascia scampo. Quando le sonorità acustiche si mischiano con quelle elettriche e con la batteria, sfiderei chiunque a trovare una persona che, ascoltato il pezzo, sia restato impassibile e indifferente. Ma chissà che il suo modo di scrivere musica e di raccontare emozioni non sia proprio un'arma a doppio taglio. La seconda parte del disco sembra infatti perdersi in ripetizioni e non aggiungere nulla di più di quanto già detto. "Grey Room" ricorda troppo "Amie" e "Coconut Skins" sembra un riempitivo partorito dopo un prolungato ascolto di Bob Dylan. Il tutto si spegne piano piano, lasciando un pò di amaro in bocca, qualche conferma, qualche certezza e un consiglio da dare a chiunque di questi tempi stia scrivendo musica: se credi di aver creato la melodia più bella di tutti i tempi forse è meglio che prima ti ascolti Damien Rice.
A me. Rinato.
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