Sui sentieri naturalistici abbandonati dai Bon Iver, ancora immersi nella loro ricerca simbolista e tecnologica, troviamo un inatteso Damon Albarn. Devo confessare che terminai la precedente recensione del pur bellissimo Everyday Robots, chiosando proprio su una certa generale pesantezza, musicale e tematica. Pare invece che Albarn mi abbia intenzionalmente voluto smentire, scrivendo un album giustappunto monolitico e monotematico, a dimostrazione della sua capacità di reggere una sfida che pochi autori pop affronterebbero oggi. Il risultato è davvero sorprendente, motivo per cui dovremmo essere grati al coraggio di questo artista, sinceramente tormentato, in grado di coniugare l'inconiugabile, come tutti i grandi sanno fare.
Un lavoro profondo nel tempo e nello spazio. Difficile non cogliere gli echi dei Pink Floyd anni 60 (Combustion), le suggestioni jazz dell'ultimo Bowie (The Cormorant) o addirittura, e sono sicuro di non sbagliarmi sulle sue conoscenze musicali, le sperimentazioni anni 70 di Battiato (Esja). Scritto nella sua dimora in Islanda, neanche a dirlo durante il lockdown (per gli inglesi ad inizio 2021), testi e musiche risentono di un momento di fragilità emotiva e di intensa contemplazione della natura, di fatto uno Sturm und Drang di inizio millennio. L'espressione The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows deve essere stata qualcosa di simile ad un mantra durante la composizione, se oltre a dare il titolo al disco e al primo brano, ricorre per intero o parzialmente nei testi di ben quattro tracce.
Album di facile lettura iniziale ma che necessita una prolungata assimilazione, dà il meglio di sé alla lunga distanza. L'iniziale title track è di fatto la nota filologica del disco, ispirata alla poesia Love and Memory di John Clare, infonde nell'ascoltatore le atmosfere in cui ci si ritroverà un po' per quasi tutti i 40 minuti di durata. Royal Morning Blue ne mostra l'aspetto più frivolo e immediato, un pezzo a metà strada fra gli ultimi Blur e i Gorillaz, quasi un vademecum dello stile di Albarn. La classicheggiante e cinematografica Darkness to Light, restituisce a pieno l'umore che permea il lavoro descrivendo in modo nitido i cambiamenti di luce, probabilmente ad inverno inoltrato, del paesaggio islandese. The Tower of Montevideo rappresenta un allontanamento fisico e musicale dai luoghi battuti e arricchisce l'ascolto con la sua atmosfera da club, imperdibile il tappeto di fiati che la impreziosisce. I Blur rientrano metaforicamente sul finale con Polaris, un'incursione nella psichedelia declinata al pop, di cui il nostro è maestro: qualcuno ricorderà Yuko And Hiro, brano di chiusura del celebre The Great Escape, a riprova che un autore di lungo corso inevitabilmente attinge al suo passato, senza per questo perdere in originalità.
Le impressioni finali sono di un Damon Albarn giunto a completa maturità, avendo prodotto un album che è un'encomiabile sintesi di un periodo unico e delicato e del bagaglio musicale che ha alle spalle. La cura estrema dei suoni e la brillantezza nella scrittura non inducono al rimpianto degli episodi più easy listening, di cui pure sarebbe capace. La sensazione principale è che da solista, cioè libero dai compagni di viaggio (e ne ha tanti), la libertà creativa di cui può godere diventa un valore aggiunto determinante. Non abbiamo altro che augurarci di non dovere aspettare altri sette anni per rivederlo all'opera in queste vesti.
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