Conobbi Damon Galgut attraverso un altro scrittore; il mio scrittore preferito, nientemeno, Edward Morgan Forster. Ma l'aver scritto un romanzo (molto bello) sulla vita di E.M. Forster non significa necessariamente esserne l'erede, la seconda venuta o cose del genere. No, no, quelle erano solo mie fantasie, che mi ero messo in testa prima ancora di averlo effettivamente letto. Già "Estate Artica", il già citato romanzo su Forster, mi aveva fatto intuire la personalità ben distinta e riconoscibile di questo autore, una personalità che nelle tre storie che compongono "In una stanza sconosciuta", o "In a strange room", se preferite, emerge nella sua forma più essenziale e più potente. Comunque, Damon Galgut è uno scrittore e drammaturgo sudafricano, classe 1963, talento precoce ma non particolarmente prolifico; solo quattro dei suoi libri sono stati tradotti in italiano, tra questi anche "In una stanza sconosciuta" (2010) ed "Estate artica" (2014), che ad oggi rimangono le sue ultime pubblicazioni.
Ma, nello specifico, cos'ha di speciale "In una stanza sconosciuta", a parte l'essere un libro scritto in maniera sopraffina che non somiglia a nulla che abbia mai letto in precedenza? Il protagonista si chiama Damon, e questo porta immediatamente a pensare che si tratti di una sorta di "diario di viaggio" fortemente autobiografico; e lo è, in larga parte, ma c'è dell'altro, ed è lo stesso scrittore a rivelarlo: "In parte quell'uomo sono completamente io, in parte è uno sconosciuto che osservo", e, coerentemenete con questa premessa, alterna continuamente prima e terza persona. Questo è il tratto stilistico più caratterizzante del libro, non una stravaganza fine a sè stessa ma una maniera originale per evidenziare ulteriormente l'onnipresente, sistematica ambiguità che caratterizza tutta l'opera. Tante sono le cose pienamente espresse quanto quelle volutamente appena accennate, alluse più o meno apertamente: spazi vuoti che sta al lettore riempire e interpretare. Less is more, ecco un'altro pilastro della narrazione: sia i personaggi che le ambientazioni sono resi attraverso descrizioni scarne e mirate, i dialoghi ridotti all'essenziale. "In una stanza sconosciuta" è un libro profondamente introverso e introspettivo, eppure per niente sfumato, non c'è "delicatezza", non c'è edulcorazione: tutte le emozioni sono rese in maniera assai netta, le immagini evocate a volte crude, e comunque sempre molto concrete, eppure l'insieme riesce a trasmettere una forte sensazione di surreale, quasi di misticismo. Minimalismo? Espressionismo? Potere della scrittura.
Come ho già accennato, "In una stanza sconosciuta" si divide in tre storie, racchiuse nel giro di duecento pagine o poco più, intitolate "Il seguace", "L'amante" e "Il guardiano". L'unico personaggio in comune è il protagonista, e tutte e tre sono storie di viaggio: da una Grecia con reminescenze mitiche alle montagne del Lesotho, dall'Africa centro-orientale alle rive di un lago in Svizzera, fino ad un'enigmatica, multiforme India. Ma la vera azione è tutta all'interno di Damon, la sua cronica, dolorosa incapacità di "risolversi", di instaurare un rapporto chiaro e compiuto con i compagni di viaggio in cui si imbatte nel suo girovagare alla ricerca di sè stesso. Nella prima storia, "Il seguace", un "voltapagina" di estrema efficacia, Galgut "compone" magistralmente una "melodia" di attrazione e rivalità, con un "contrappunto" omoerotico, a dir poco ipnotica, carica di mistero, sensualità e tensione; una tensione fatalmente destinata a rimanere irrisolta. "Il guardiano" invece, almeno in parte, arriva a una risoluzione, pur se tragica, e si distingue dalle altre due storie per i contorni molto meno vaghi, l'uso molto più massiccio di tinte forti, di dettagli spigolosi; dopotutto, la vicenda ruota intorno alla lotta disperata per salvare una vita irremovibilmente diretta verso l'abisso. Purtroppo il capitolo centrale, "L'amante", non si esprime a mio avviso sugli stessi, altissimi livelli emotivi: il problema è che qui Galgut arriva ad "esagerare" con la vaghezza e l'incomunicabilità, finendo per tratteggiare una vicenda e personaggi troppo poco caratterizzati per generare empatia: manca un personaggio cardine "carismatico" e ben delineato come Reiner (Il seguace) e Anna (Il guardiano).
Capolavoro mancato di poco, molto poco, per me. Si legge in maniera estremamente scorrevole (prima e terza parte soprattutto) nonostante contenuti piuttosto difficili e complessi. Un ibrido, un esercizio di stile, un qualcosa senza niente di iniziato, niente di finito, niente di risolto (Cit. Annie Proulx); in ogni caso, una lettura ammaliante.
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