Eccellente esordio alla regia di Dario Argento, "L'uccello dalle piume di cristallo" ('69), equamente ispirato dal romanzo "La statua che urla" di Frederic Brown e dal lungometraggio "Sei donne per l'assassino" di Mario Bava, oltre che da "Blow Up" di Michelangelo Antonioni, risulta uno dei film commercialmente più fortunati del c.d. thriller all'italiana e vero caposaldo del genere.

La stessa trama del film costituisce il modello per molta filmografia argentiana: giovane artista in crisi d'ispirazione assiste, casualmente, all'aggressione di una giovane gallerista, riuscendo a salvarla. Con ogni probabilità, l'aggressore è un serial killer che semina il panico in città. Il giovane si trova così coinvolto nelle indagini, cercando la verità nel passato dell'assassino, e nella sua stessa memoria, alla ricerca di un particolare che non torna. L'identità del colpevole sarà del tutto inattesa.

Ben girato, anche grazie alla fotografia di un giovane Vittorio Storaro, ben accompagnato dalle musiche di Ennio Morricone, e, nel complesso, ben recitato da un cast di attori molto assortito (Tony Musante, Enrico Maria Salerno, Eva Renzi, Umberto Raho, Suzy Kendall, Mario Adorf), il film non sembra affatto invecchiato a quasi quarant'anni dalla sua uscita. Il lungometraggio di Argento non soffre, a mio parere, i limiti di molta filmografia successiva del regista romano: la messa in scena dei delitti, spesso mostrati a "fatto avvenuto", non è l'epicentro dell'azione, né il pretesto attorno al quale costruire una storia; il virtuosismo registico è relegato ai piani sequenza, alle scene di pura suspence; soggetto e sceneggiatura, forse per la chiara ascendenza letteraria, sono ben impostati, e, nel complesso credibili; gli stessi personaggi sono ben caratterizzati.

Punto forte del film - senza addentrarmi nei particolari - è il finale a sorpresa, che determina un totale ribaltamento nella prospettiva del film: ad alcuni parrà scontato, ma a mio avviso, tolto forse quello di Tenebre, il finale di questo film d'esordio è il più inatteso della filmografia di Argento.

"Volgarizzando" (in senso positivo, s'intende) la poetica di Antonioni, il giovane cineasta romano ribadiva la differenza fra percepito e reale, fra essere ed apparire, fra soggettività ed oggettività. Niente male, per un'opera destinata al puro svago, ed efficace come mai, in futuro, il cinema di Argento.

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