Uno scrittore statunitense si reca a Roma per presentare il suo ultimo thriller, mentre un serial killer semina il panico nella città ispirandosi ad esso ed uccidendo, con perverso moralismo, una serie di "peccatrici". Lo scrittore aiuta la polizia nelle indagini. Come sempre, la verità non è quella che sembra, ed occorre scavare nel passato di qualcuno per comprendere, appieno, il tragico presente.

Chi non avesse visto 'Tenebre' ('82) si fermi pure qui, e cerchi di procurarsi copia del film, la cui visione è ovviamente consigliata, oltre che agli amanti del regista capitolino, ai cultori del giallo classico, seppur spruzzato da ampie dosi di sangue.

Chi abbia già visto il film voglia invece seguire alcune modeste considerazioni sul lungometraggio, piene zeppe di spoiler(s).

Su 'Tenebre' si sono sempre dette banalità, alternate a cose interessanti. Fra le banalità, annovero le ripetute menzioni all'estrema violenza del film (nel quale si contano, alla fine, più morti che in ogni altro di Argento; si salva, di fatto solo uno dei protagonisti), all'eleganza formale del prodotto, al contrasto fra le tenebrae dell'anima alle quali fa riferimento, non troppo velato, la trama e la luce, naturale ed artificiale, che inonda la scena ed il mondo esterno, nonché il bianco candido delle vesti di alcuni personaggi, da contrapporre alle ombre delle loro anime (si pensi al triangolo Franciosa - Nicolodi - Lario).

Fra le cose interessanti, menziono l'assonanza del film a certi esperimenti metalinguistici effettuati da Dürrenmatt in numerosi romanzi "gialli" (soprattutto: "Il giudice ed il suo boia"), ai quali questo 'Tenebre' deve forse non poco nello sviluppo della trama: in ambedue gli scritti il centro della scena è abbondantemente occupato dall'assassino, il quale è al contempo "attore" (ovvero colui che muove l'intreccio) ed "agito" (ovvero soggetto mosso da disegni altrui) e quindi, al contempo, carnefice e vittima. In 'Tenebre', l'identificazione delle figure, a partire dalla seconda metà del film, diviene pressocché totale, con un Peter Neal che da "vittima", quantomeno indiretta, delle angherie del maniaco di turno, si sostituisce ad esso per procedere, propria sponte, all'eliminazione dei propri nemici personali (agente letterario, ex fidanzata).

Ad un livello letterario meno elevato, 'Tenebre' rammenta, per lo sviluppo del plot narrativo, il meno noto "Il caso del sette del calvario", del critico e scrittore americano Anthony Boucher, in cui un assassino si sostituisce all'altro fingendo di proseguirne l'opera, risultando mosso da rancori esclusivamente personali. Analoghi sviluppi narrativi si notano, in parte, anche ne "La serie infernale" di Agatha Christie, dove la pluralità di omicidi è strumentale a stornare l'attenzione delle forze dell'ordine dall'unico omicidio effettivamente voluto, anche qui per interessi personali.

Tali precisazioni mi permettono di giungere a quello che è il cuore del film di Argento: la figura dell'assassino, così diversa rispetto a tutti gli altri film dell'autore. Mentre le gesta del primo omicida, il critico letterario [attore/agito] Berti, appaiono in linea con la tradizione argentiana, in cui l'omicida è essenzialmente un sadico che "gioca" con la propria vittima, sublimando le proprie pulsioni sessuali represse (cfr. "L'uccello dalle piume di cristallo", "Quattro mosche di velluto grigio"), o le proprie nevrosi da abbandono (cfr. "Profondo Rosso"), le gesta del secondo omicida [attore/ispiratore], lo scrittore Peter Neal, si discostano nettamente dai classici topoi argentiani: gli omicidi sono espressione di violenza, non di sadismo; di vendetta liberatoria e distruttiva, e non di messa in scena volta a sublimare una tensione repressa. Non tragga qui in inganno il richiamo al passato dello stesso Neal (omicidio avvenuto in gioventù), avente funzioni puramente narrative, che si riallacciano alla tradizione argentiana quasi come un marchio di fabbrica ed una strizzata d'occhio agli spettatori più fedeli, trattandosi tutt'al più di un espediente narrativo e poco altro.

A differenza che in "Quattro mosche" e "Profondo Rosso", l'assassino non "gioca" dunque con le proprie vittime, non le "chiama" prima di ucciderle, avvisandole della sua presenza incombente e dichiarando la sua onnipotenza sul loro destino, ma, più rapidamente, le elimina, a colpi d'ascia, strangolandole o pugnalandole a tradimento, mosso da scopi decisamente concreti. In ciò, Peter Neal può forse ricordare il dott. Casoni de "Il gatto a nove code", che tuttavia agiva non tanto per vendetta o furia distruttiva, quanto per istinto di autoconservazione, temendo che i colleghi rivelassero un segreto che si riferiva alla sua persona, rovinando la sua carriera.

Piuttosto, la figura di Neal, nell'escalation di violenza che accompagna il suo soggiorno romano, mi ricorda il Jack Torrance del quasi coevo Shining di S. Kubrick, a causa dello stretto legame sussistente fra tensione creativa dello scrittore e pulsioni omicide: ma mentre in Kubrick siamo di fronte ad un artista in crisi, il Peter Neal di Argento è uno scrittore nel pieno della maturità e del successo, che decide di passare dalla descrizione all'azione, dall'arte alla pratica.

In questa provocazione intellettuale risiede l'autentico fascino sinistro del film, che ruota attorno all'eterno interrogativo, di ascendenze greco classiche, circa il rapporto fra arte, contemplazione e vita, in un intreccio che rende la visione di 'Tenebre' sempre attuale, e la bellezza del film immarcescibile.

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