9 canzoni, 67 minuti, 248 riff...

Il quarto e ultimo finora album dei Dark Angel è immancabilmente associato a questo tonitruante proclama, e da più parti viene catalogato come il capolavoro definitvo del thrash metal, dimentichi che purtroppo il thrash non vive solo di riff...

L'impatto immediato con l'album non è dei migliori: l'istintività che aveva contraddistinto gli esordi del combo losangelino è ormai scomparsa per fare posto a un approccio più cerebrale e meditato (forse anche per la dipartita del chitarrista Jim Durkin, che lascia praticamente libero di sfogare la psiche arzigogolata di Gene Hoglan),e la grande quantità di idee poste nelle canzoni ai primi ascolti renderanno il lavoro difficilmente digerbile, per non dire soporifero. Poi col passare del tempo e il crescere degli ascolti s'inizia ad apprezzare la complessa tessitura musicale dei brani, con le parti di chitarra elaboratissime che si fondono e s'intrecciano fra loro, grazie anche al sontuoso e terremotante drumming di Gene Hoglan, indispensabile nel cucire le maglie di ogni song, conducendo le danze con cambi di tempo e fill incredibili. Certo, alcuni passaggi appaiono forzati o addirittura noiosi, ma è difficile mantenere alta l'attenzione quando ogni canzone non scende mai sotto i 5 minuti di durata (anche se va detto che altri gruppi, tipo i Coroner, riescono in questa impresa con scioltezza).

Ma c'è qualcosa oltre alla prolissità musicale che affossa l'album, qualcosa che risponde al nome di Ron Rineheart. Il singer, sostituto di quella bestia berciante di Don Doty( il "bestia berciante" va inteso in senso positivo naturalmente), nel precedente "Leave Scars", aveva fornito una prova dignitosa, abbastanza rabbiosa e con qualche acuto piazzato nel punto giusto (si senta la cover  martirizzata di "Immigrant Song"). Purtroppo qui si mette in testa (o forse Gene Hoglan si mette in testa...) di voler cantare nel senso comune del termine. Il risultato è tragicomico: innanzitutto la sua estensione vocale gli permette di coprire un range di 3-4 note al massimo, quindi le sue melodie si ripetono imbarazzantemente di canzone in canzone; ma è proprio il tono a uccidere definitivamente la sua prestazione nell'album: un guaito lamentoso che si addice di più a una sciampista in crisi d'amore che a un tallo nerboruto e tatuato par suo. Se le parti strumentali fossero preponderanti magari ci si farebbe un po' meno caso...invece no! Costui non si cheta un attimo, le sue linee vocali vocali permeano ogni canzone, e canta praticamente sopra ogni riff, tanto che ci si trova ad attendere l'assolo come l'acqua nel deserto. Assoli che comunque scompaiono dal radar, limitandosi a fugaci comparsate che solo in un paio di frangenti aggiungono qualcosa alla canzone ("An Ancient Inherited Shame"). Quando comunque il singer si mette nell'ordine di idee di conferire maggiore cattiveria le canzoni diventano eccezionali, come per esempio "Psychosexuality" o il magnifico crescendo che si tramuta in assalto furioso (finalmente!) di  "A Subtle Induction", ma in generale l'ascoltatore medio si ritrova a ricordare con amara nostalgia i tempi dell'epocale "Darkness Descends".

E ora vado ad ascoltarmi "Infernal Overkill" dei Destruction, che Schmier non gli è mica mai venuto in mente di iniziare a cantare, no?

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