E' tutta questione d'atmosfera, il black metal.

Dalle piaghe fumanti dei bellicosi Marduk fino all'ancestrale nichilismo, intransigente rigetto della melodia e delle variazioni dei bestiali maestri norvegesi, fino ai figli degeneri dalle componenti sinfoniche, passando per la decadenza depressiva e le sperimentazioni di certi gruppi americani: devono creare qualcosa, una situazione di scarnificazione interiore, erosione incontrollata di ogni struttura pseudo umana avente come fine una catarsi... ma questo è il risultato che solo i grandi riescono ad ottenere, di Opus Nocturne, Panzerfaust, Diabolic Fullmoon Mysticism non ne escono uno al mese (purtroppo...).

Ci sono invece uscite che non sconvolgono, ma fanno invece ribollire un magmatico e oscuro misantropismo che se non fanno il colpaccio, poco ci manca. Si tratta degli abili grupi che come demiurghi modellano la materia nera e riescono a farti sussultare, almeno nei primi ascolti. E' il caso di "Ylem". Tacciato da molti come passo decisivo verso la commercializzazione, essendo i Dark Fortress in seno alla Century Media. Niente di più falso. Anzi, le influenze del gruppo vanno a pescare questa volta in uno dei dischi più pesanti del decennio, quell' "Into The Pandemonium" che l'ultima incarnazione dei Celtic Frost ha scagliato in terra. Non solo, nei primi brani si sentono riffs stoppati degni della scuola del thrash moderno che rendono tutto più dinamico. Diciamolo subito, la prima metà della tracklist è la più significativa, perchè varia e coinvolgente, il gruppo è in palla, le chitarre si intrecciano alla perfezione, accenti di tastiere conferiscono un tocco tragico che rende la tensione palpabile. Poi la magia si interrompe quando ti accorgi che nei pezzi da sette o otto minuti almeno trenta secondi a brano li elimineresti ("Redivider"), passaggi già sentiti non solo abbondantemente nel corpo della canzone, ma anche da altre bands. Ancora, i brani da quattro minuti sanno di Satyricon ultima maniera e paradossalmente risultano i più ripetitivi dell'album ("Satan Bled" vorrebbe tanto essere disimpegnata nel suo incedere, ma è solo goffa). Colpo di coda finale con due gioiellini (uno e mezzo, va'...) lenti e striscianti, il primo di estrazione death/doom che mette in risalto le doti del cantante a suo agio anche con registri non prettamente black, e il secondo coronato da un lavoro egregio di chitarra raffinata e multiforme... che però non può coprire lo scempio vocale perpetrato dalle clean vocals, assolutamente prive di ogni ragione di esistere, senza mordente.

Per concludere, un lungo trip -forse troppo, oltre settanta minuti- che si pone come evoluzione del black meno oltranzista e più attento alle contaminazioni, pur rimanendo entro certi schemi sulfurei. Acquisto di seconda fascia, sicuramente particolare, ma con idee scippate ai big della scena.   

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